cLOUDDEAD
cLOUDDEAD
Chi è? I cLOUDDEAD sono un progetto musicale di Yoni Wolf (alias Why?), Adam Drucker (alias Doseone) e David Madson (alias Odd Nosdam). Wolf e Drucker si occupano di campionare e registrare i suoni, oltre che di usare alternativamente le voci; Madson, dal canto suo, riproduce e distorce i beat. Non sono una nuvola morta, come suggerirebbe il nome, piuttosto un simpatico neologismo nonsense inventato per gioco dalla sorella di Drucker.
Quand'è? Più di un “quando”: potrei parlarvi del 1999, anno in cui il loro gruppo ha preso vita; oppure del 2001, anno di nascita del loro primo album, cLOUDDEAD, punto di raccolta di alcuni dei singoli che avevano rilasciato precedentemente.
Dov'è? Concentrandoci sui cLOUDDEAD parliamo di America, Oakland. Eh si, proprio gli Stati Uniti; facile, direte voi, d'altronde si parla di rap, di hip hop. Ma non è così semplice, amici miei... no, proprio per nulla. A breve vi parlerò della sostanza sonora, ma prima un piccolo consiglio: liberate la vostra mente da ogni preconcetto snob anti-hiphop.. Ecco, se proprio volete inquadrarli subito per benino, usate le targhetta fighettosa e alternativa del trip-hop; pensate pure a Tricky, a Flying Lotus, ai Massive Attack, scegliete un po' voi. Loro comunque, i cLOUDDEAD, sono su un altro pianeta ancora: non più bello, più diverso.
Cos'è? Questa è più difficile. Ok, ci provo: destrutturazione del suono, ecco cos'è. Ogni traccia, divisa in due parti, è un puzzle dai mille contorni, per nulla lineare. Dimenticate il quadrato, il rettangolo: cLOUDDEAD è del tutto fuori dagli schemi, lontanissimo da ogni geometria strumentale preconfezionata o studiata ad hoc. E poi il rap, che rap: fraseggi schizoidi, inframezzati da litanie nasali e volutamente lo-fi. Si parte con “Apt. A (pt 1 e 2)”, introdotta da un tappeto atmosferico di pura desolazione, per arrivare poi a uno strato sonoro orientaleggiante in cui s'intrecciano le voci stonatissime (e per questo bellissime) di Wolf e Drucker, del tutto in controtempo e asimmetriche. La ripresa parte con una breve sequenza sintetizzata sull'onda del riverbero e continua così, tra fraseggi rap ora graffiati, ora “lagnosi”. A metà traccia il substrato musicale si blocca; riparte dopo poco sotto un'aura diversa, incorporea, quasi eterea, per approdare infine su un'isola di lamenti, campanellini al vento e aspirapolveri elettrici. Tutto vero, ascoltare per credere. Continuiamo questo viaggio spaziale con “And All You Can Do Is Laugh (pt 1 e 2)”. Ci troviamo in una giungla gocciolante suoni sempreverdi (anche se sempre riprodotti con la ruggine), merito anche dello xilofono, dominata da una natura selvaggia, primitiva, macabra: e il rap si fa decadente, alienante. Poi, l'improvvisa virata ambient: le tastiere ci proiettano sotto una cascata, l'acqua freddissima ci depura dalle contaminazioni vocali “da metropoli”. Rimaniamo natura, e natura soltanto. L'inizio della seconda parte ci porta direttamente in un localetto retrò blues di Chicago. Poi, pian piano il sound si distorce, si accartoccia come un foglio di carta sbagliato: e il rap si fa noir. Accompagnano e chiudono il tutto graffiature d'archi, in salsa thriller movie.
“I Promise Never to Get Paint On My Glasses Again (pt 1 e 2)” parte confusa attraverso le voci bisbigliate del trio di Oakland; poi, una piccola “pausa” ritmica; poi, spalmate minimaliste su una tartina hip-hoppegiante. La seconda parte riprende le sonorità sperimentali e cervellotiche della sorella sotto un lenzuolo ambient: dormire avvolti dalla notte, il nero fuori, il bianco dentro. Un numero viene composto; squilla un telefono; una voce dall'altra parte della linea risponde; convenevoli; proposte musicali, alcune accettate, altre no. E' l'inizio, del tutto para-recitativo, di “Jimmybreeze (pt 1 e 2)”: seguono, in ordine sparso tra la prima e la seconda parte, versi elettronici ludici à la Super Mario, intermezzi rap rilassati, altri nevrotici, campionature lunatiche “ufotizzate”, riprese melodiche simil post-rock, sfumature oniriche e dilatazioni sognanti. Arriva “cLOUDDEAD # 5 (pt 1 e 2)”; la rossa ciliegina dal morbido sostegno di panna: aprite la bocca e mangiate pure il vostro delizioso nulla: ritmiche stiracchiate, silenzio delle voci, distorsioni fumose, evanescenti, inconsistenti, che viene voglia di mordere, di strizzare, come il perverso desiderio di un bambino di acchiappare una nuvola e ingoiarla così, come fosse zucchero filato. La copertina, in questo caso, è più eloquente di qualsiasi altra descrizione. “Bike (pt 1 e 2)” è lo spiraglio di luce tra le nuvole. Ma è una luce troppo accecante quella che ci colpisce: dolcissima confusione di suoni, tra inquietudini sintetizzate, nenie liturgiche delle tre voci, tempi fratturati, interrotti, strozzati. E ancora, la seconda parte: echi jazzy, mini pause dialogate, gargarismi, ugole tremanti, rallentamenti delle tastiere e lo squillo, sul finire, di un telefono fisso anni '60, fastidioso, trillante, cacofonico, bellissimo.
Perché? Per il semplice fatto che difficilmente troverete un simile intreccio musicale di alienazione e senso di “non appartenenza”, adatto in nessun luogo, in nessuna compagnia, in qualsiasi momento. Perché sì.
Tweet