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R Recensione

5/10

Sig

Freespeed Sonata

“Santi numi, Holmes! E questo cos’è, trip-hop?”   “Elementare, Watson, elementare…”   “Ma quel tipo su sdm aveva scritto…”   “Trattasi di un patetico incompetente, amico mio.”

Ebbene sì, il trip-hop sta risalendo la china, con fatica e sudore. Il francese Sig, già fotografo, regista e autore delle colonne sonore dei propri film, se lo tiene stretto costringendolo in una miscela jazz-noir per piccolo ensemble che, almeno nella prassi, non può non ricordare i tentativi d’abbordaggio alla fusion messi in atto da svariati produttori jungle durante i tardi ‘90s (per non dire delle derive più “classicamente” trippy & hoppy di un DJ Krush o di una Cinematic Orchestra). L’intenzione (fermo restando che i processi alle intenzioni li lascio ai giornalisti veri) parrebbe quella di riesumare, applicandolo all'idioma hip-hop, il cliché progressive (fermo restando che il progressive è meglio di un orgasmo) del formato “colto” applicato alla materia popular: una sonata hip-hop in quattro movimenti, a loro volta suddivisi in piccoli frammenti a cui sono apposte, come su partitura, precise istruzioni riguardanti esecuzione e mood (“solennel”, mystérieux”, “allegro et suspendu”, un poeticissimo “comme une marionnette”).

“Freespeed Sonata” vede quindi un appassionato Sig ruminare al pianoforte, sulle orme d'un oltremodo nervoso Keith Jarrett (il Bill Evans dei poveri), tutto alle prese con slanci romantici, introversioni atonali, sfarfallii impressionistici, solenni blocchi di accordi organizzati in verticale (si veda l’apertura del terzo movimento); al suo fianco il sax fumante di Christophe Turchi, il basso del paisà Marcello Giuliani, e soprattutto la voce roca e sensuale, come uno scat al rallentatore, della ghanese Joy Frempong. Detta così parrebbe una goduria, ma nonostante tutta la buona volontà, l’immaginazione musicale di Sig è poca cosa se paragonata alle sue ambizioni. Di questi sessantacinque minuti se ne salveranno sì e no una ventina, pure difficili da estrapolare da un “tutto” così compatto, monolitico e monocorde (sigh!). Manca la visionarietà dell’alchimista hip-hop, l’attivazione del meccanismo principe di un’arte che, ricordiamolo, è soprattutto “di studio”; così come non aiuta la scelta di mantenere invariati colori e organico lungo l’intero arco dell’esecuzione.

Eppure, si diceva, qualche momento è sopra la media: la paranoia urbana di “The City Sleeps”; la sonnolenta “Second Dream”, con la doppia voce in stato d’ipnosi e la figura pianistica lievemente dissonante, reiterata come in trance (Tricky in versione “unplugged”?); il fluire amorfo di “Hidden”, o ancora la chiusa di “Don’t Forget” (“Don’t forget to dance to your heart beat” ci ammonisce l’ospite NYA ai vocals). Su tutte, la bella “Rap My Soul”: breakbeat cigolante in tempo dispari (il 5/4 fa sempre la sua porca figura), il sax che dilaga nelle retrovie con tutto l’ambaradan d’effettistica, e la nenia nasale della Frempong, qui un clone più noir e jazzy della prima Erykah Badu.

Troppo poco per parlare di rinascita o, più cautamente, di ritorno in auge di una sensibilità trip-hop, insomma. D’altronde, una plausibile – e soprattutto sensata – reincarnazione di quegli idiomi la si può rinvenire nelle derive più oniriche e notturne del dubstep, non certo in una “wannabe” sonata prolissa e sostanzialmente passatista come questa. Viene in mente, a tal proposito, quel disastro che fu il progetto U.N.K.L.E., ossia l'edonistico “trip” (e mai vocabolo fu più appropriato) di un James Lavelle convinto d’avere più o meno il mondo intero nel palmo della sua mano: il pur diversissimo “Freespeed Sonata” non lambisce gli stessi livelli di trash (mancano le atmosfere sci-fi, il trendismo ad ogni costo, nonché la volontà di fare del trip-hop una sorta di pentolone di Gargamella in cui buttare, a casaccio, tutto quello che si trova in frigorifero) ma ugualmente boccheggia, sommerso da sei piedi di seriosità cameristiche e dal bagaglio di trucchi che il compositore-medio di soundtrack si porta appresso manco fosse un rosario. “La colonna sonora per un film che non esiste”, si dice in questi casi. Sarebbe preferibile non esistesse nemmeno la colonna sonora.

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synth_charmer alle 16:34 del 17 maggio 2010 ha scritto:

Ah, sono finiti i tempi in cui los irrompeva con 5 stelle. Adesso risorge solo per le stroncature

loson, autore, alle 17:20 del 17 maggio 2010 ha scritto:

Prima irrompevo con le 5 stelle, ora irrompo solo le scatole. -_-''

synth_charmer alle 19:23 del 17 maggio 2010 ha scritto:

Ma no, che è sempre un bel leggere. Però io non dovevo dirlo tanto per mantenere vivo il solito clima di disaccordo: da quando il progetto UNKLE è un disastro? Pazzo! non è stata la rivoluzione del secolo, ma un bel segno lo ha lasciato, anche se si è un po' perso per strada. Questo disco invece non l'ho ascoltato, ma se me lo presenti così..