Tricky
Maxinquaye
“How can I be sure/ In a world that’s constantly changing?” (Tricky, “Aftermath”)
Del doman non c’è certezza, si sa. Tutto può accadere, anche (e soprattutto) le cose più ovvie. In primis che un glorioso passato venga ridimensionato, avviluppato in dilemmi esistenziali, prono nel dubbio di non aver scandito a dovere il succedersi degli eventi. È accaduto al brit-pop, al grunge, alla jungle, all’ondata di revival lounge sintetizzata dalla cocktail generation, figurarsi se non ci finiva di mezzo anche il trip-hop. E così è stato: da “next big thing” a fossile da museo, da suono dell’avvenire a background music per raffinati party della upper class, infine codice distintivo di un passato che non può (ancora?) accedere al nostro presente, incapace di scavalcare la linea d’ombra che separa il divenire dalla sua immagine riflessa.
Qualche nome illustre è riuscito a sottrarsi al fato e a presentarsi, fresco di rasatura, allo specchio del nuovo millennio, ma per dei redivivi Portishead reinventatisi astute icone indie si contano decine di Luke Vibert e Dj Shadow stracotti che, nella migliore delle ipotesi, si aggirano fra noi a mo di spettri: piante da serra un tempo rigogliose, oggi rinsecchite miserabilmente. Un po’ meglio è andata a etichette simbolo come Mo’ Wax o Ninja Tune, costrette sì a diversificare il proprio mercato (è accaduto anche alla Sub Pop all’indomani di quello sparo che chiuse idealmente la “grunge-era”) ma per lo meno capaci di non sacrificare l’unicità del disegno, il collante sonoro/concettuale che legava fra loro uscite come Dj Krush e Dj Vadim, Funky Porcini e Dj Food. Non ce lo vedo insomma James Lavelle a pubblicare folk-rock d’accattonaggio e spacciare l’evento per la rinascita artistica della sua label (vero signori Pavitt & Poneman?).
Prima di arrivare a Tricky, consentitemi un’ulteriore digressione, utile (forse…) per comprendere le origini non solo della sua musica, ma del trip-hop nel suo complesso. Innanzitutto un luogo: Bristol. Che il tasso di contaminazione della musica uscita da questa “New Orleans d’Albione” sia spesso stato pericolosamente alto è ormai assodato (il Pop Group e la sua discendenza sono lì a testimoniarlo), e ciò è da mettersi in relazione alla natura meticcia della città portuale, approdo privilegiato per il commercio di schiavi dall’inizio XVI° secolo fino al 1807, anno in cui la tratta venne abolita. Il collettivo The Wild Bunch non fa eccezione: nato attorno a metà ‘80s come melting pot di istanze e culture sotterranee, sarà “criminale” nursery in cui verrà svezzato il grosso delle teste pensanti del trip-hop, da Nellee Hooper a Daddy G, da Dj Mushroom a Tricky stesso. E non a caso si è parlato di “teste”, giacchè lo tristo trip-hop resta soprattutto faccenda mentale, novello purgante psichedelico con cui espellere le tossine del reale e “far viaggiare” i neuroni a contatto coi fumi inebrianti della marijuana.
Al di là delle sue diverse manifestazioni, è infatti prassi inquadrare il genere come mutazione soporifera, astratta e druggy dell’hip-hop: l’hip-hop che avrebbero suonato il Miles Davis elettrico di “Agharta” o i Grateful Dead al climax di beatitudine allucinogena in “Dark Star”; hip hop scorporato dalle sue istanze sociali, nel quale la semantica viene piegata agli scopi del “viaggio” e le atmosfere galleggiano in un limbo che, all’occorrenza, può farsi raro squarcio di paradiso o campo di concentramento psichico. Sì, è tutto abbastanza vero. Così com’è vero che il suo suono (parimenti nutrito di soul, della jazz-fusion meno tarocca e di vertigini space) supera a sinistra molte fiacche manifestazioni hip hop americane dei ‘90s, anni segnati dal teatrino di crimini della West Coast e commercialmente dominati dallo strapotere “gangsta”. Certo, la rinascita della Costa orientale a suon di guerriglia medieval-esoterica in stile Wu Tang Clan non è passata inosservata, al pari delle ben più interessanti appendici “avant” a nome “Dr. Octagon” (alias Kool Keith con Dan “The Automator” Nakamura) e Dälek (nel ’98 se ne uscivano con l’assurdo “psych-hop” di “Negro Necro Nekros”, a tutt’oggi il loro capolavoro), ma restavano finanche casi isolati, mosche “bianche” (non si offendano i miei cari niggas) in un panorama saturo d’ovvietà. In Inghilterra, invece, si mescolavano le carte con esiti poco men che spiazzanti.
A voler barare un pochetto (ma neanche tanto), si potrebbe affermare che l’hip-hop sia giunto alle sue odierne derive più “sperimentali” proprio assimilando alcuni principi declinati dalla messe dei “trip-hoppers”, a loro volta ispirati da maestri del “taglia e cuci” quali Kurtis Mantronik e Prince Paul: la stratificazione del sound, la cura nel confezionare le basi, l’abilità nel fondere real-playing e samples. Il tratto peculiare del trip-hop risiede, semmai, nel fatto che tanto nelle sue manifestazioni strumentali quanto in quelle più pop-oriented, esso resti musica preminentemente d’ambiente (e anche per questo affine alle derive “electroniche” dell’epoca), d’evasione ma non nel senso comune del termine: ad essere radicalizzata, difatti, non è la fuga dalla realtà bensì la dissociazione dalla stessa. L’intontimento, perdersi nel caos stupefatto del “feeling in slow motion”: queste le armi attraverso cui estraniarsi da un contesto di sradicamento/annullamento culturale passivamente accettato in quanto dato immodificabile. Un atteggiamento elitario ma sotto sotto rassegnato, che rifiuta la lotta e si arrende allo sguardo perso nel vuoto dell’iper-fragile Beth Gibbons o agli anelli di fumo tossico che Tricky sbuffa, col cervello in pilota automatico, da quella boccaccia di rospo che si ritrova. Il coma come scelta di vita. L’atarassia in downtempo.
E Tricky sia, ordunque. Cioè Adrian Thaws, classe 1968. Sangue misto africano, irlandese e giamaicano nelle vene. “Let me tell you about my mother” recita un sinistro campione in “Aftermath”, rinsecchito cerebro di forma vinilica uscito come singolo nel lontano 1993: ancora una volta è la madre – suicidatasi quando il piccolo Adrian aveva appena quattro anni – la ferita mai rimarginata, spirito benefico rievocato in più di un’occasione (Maxinquaye era il suo nomignolo, e Tricky ha detto di averlo scelto come titolo del disco “perché così è come se lei fosse dappertutto”). Dopo un’infanzia trascorsa con la nonna materna e un’adolescenza spesa tra furtarelli, erba e un breve soggiorno in prigione, Adrian incontra i Massive Attack. Questi lo assumono, appena diciottenne, come rapper nel circuito Wild Bunch, ribattezzandolo “Tricky Kid” e dandogli persino un lauto stipendio settimanale – che sputtanerà in alcool e droghe di ogni tipo – per non fare assolutamente nulla, se non bofonchiare qualche minuto di rime nel miliare “Blue Lines” (1991) con un joint in una mano e l’inalatore di Ventolin nell’altra (per Tricky il “trip” è sempre cattivo, non c’è storia). È in quel periodo che inizia a sperimentare con tastiere e campionatori: “Ho imparato a programmare tastiere incasinandone una oltre ogni limite. Adoro i suoni, così cercavo di produrne di miei. I fonici dicono che lavoro alla rovescia, ma è solo perché non capisco cosa significhi fare le cose nel modo “giusto”. Non so leggere uno spartito, e l’ultima cosa di cui ho bisogno è imparare a farlo. Insomma, chi può dire cosa è giusto o sbagliato nella musica? Andiamo, è ridicolo”.
Sempre nel 1991 conosce Martina Topley-Bird, all’epoca solo quindicenne. Fra una cosa e l’altra lei gli confida di saper cantare. Brutto affare: il losco figuro la mette alla prova sotto la supervisione di Mark Stewart (un libro a parte solo su quest’uomo, please) nella session che partorirà giustappunto “Aftermath”, rifiutato dai Massive e quindi pubblicato dalla Fourth & Broadway, sussidiaria della Island. Poi arriva l’EP “Hell” con i Gravediggaz, a sancire il legame con l’hip-hop d’oltreoceano e nutrire di splendore horrorcore i 6:39 della sconcertante “Psychosis”: incubo amorfo alla Bosch, crogiuolo di demoni e sortilegi cuciti in loop. Nel frattempo escono tre singoli talmente fuori dal mondo da spingere la stampa a far pressione sul folletto nero affinché capitalizzi con un 33 giri (si dice ancora così, vero?). Detto fatto: registrato a Londra, con la jungle che intanto monopolizza le frequenze delle radio pirata e ridisegna la tensione urbana in sincopi di strisciante immobilismo, “Maxinquaye” (Island) fa' la sua comparsa nei negozi e subito si piazza al terzo posto delle charts britanniche (al decimo in quelle statunitensi). È l’aprile del 1995. Da lì a un anno Tricky diverrà una tale celebrità che molti suoi colleghi si faranno in quattro per ottenerne i servigi di produttore o remixer (Bjork, Madonna, Damon Albarn, Garbage, etc.). Tutti lo cercheranno, tutti lo vorranno. Lui ci sarà, spesso malvolentieri.
Giustamente acclamato erede del disordine entropico di Sly Stone, Tricky, checché se ne dica oggi, resta snodo centrale della musica del secolo scorso. Se l’aura dei Massive Attack si librava nell’etere come ipotesi di sound-system “dreamy” e i Portishead confinavano la loro opera di riciclaggio “attivo” a lounge-jazz, soul e colonne sonore di spy movies, Tricky è il black hole, la discarica emotivo-semiotica di un’intera civiltà sonora; l’ideale punto di contatto fra dub, hip-hop, funk, electro, blues, gothic (occhio alla cover di “Tattoo” dei Banshees su “Nearly God”), synth-pop, indie-rock e molto altro ancora; un’isolata e altrimenti inimmaginabile ipotesi di b-boy “isolazionista” in fissa con l’art-rock di discendenza Eno-Ferry; cherubino satanasso che si fa’ beffa delle etichette e gode nel tenere un piede in due scarpe (arte “alta” e cultura pop, rumore e melodia); la “cosa” più avantgarde partorita dalla scena trip-hop bristoliana.
In “Maxinquaye” Tricky si dimostra (s)piacevolmente ossessionato dai procedimenti tipicamente dub (i “kingstoniani” King Tubby e Bunny Lee avrebbero approvato) di filtraggio e manipolazione del materiale più disparato, eletto a tramite fra inconscio collettivo e creazione di una nuova soggettività. Ecco quindi il baritono di Isaac Hayes riemergere, rallentato e disumanizzato, in “Hell Is Round The Corner”, carillon retro-futurista coperto di ruggine a 78 giri, seviziato con mano crudele da presse industriali e synth che corrodono strutture di cui avvertiamo il disfarsi in tempo reale (molto “basinskiano”, direi). Ecco una pigra linea di batteria degli Smashing Pumpkins campionata e preposta a ossatura del “raga-hop” “Pumpkin”, ove la voce di Alison Goldfrapp si libra libellula come una Elizabeth Fraser (Cocteau Twins) alle prese col siparietto della “signora del termosifone” in “Eraserhead”. Ecco un irriconoscibile frammento di “Bad” (Michael Jackson) compresso in “Brand New You’re Retro”, caleidoscopica arringa scandita da ingranaggi pulsanti ed effetti quasi cartooneschi (gli scratch alla Paperino sono fantastici): puro “hip-pop” su misura per il dancehall.
La deriva ultima del processo, come può facilmente immaginarsi, è l’accumulo puro e semplice di eventi sonori: “Strugglin’”, malefico blob di gelatina verdastra, forse i 6:38 più alienanti mai prodotti in seno al trip-hop. Gli ingredienti? Un loop lentissimo e rutilante, trombe da giorno del giudizio talmente “sfondate” da suonare come cornamuse, rhodes ridotti a una pasta di liquami aromatizzati al gas nervino, effettistica horrorcore da manuale (una porta che scricchiola, sirene di polizia, il “click” di una pallottola inserita in canna, un rubinetto che sgocciola, il ticchettio di un timer e chi più ne ha…). Difficile pensare a qualcosa di più repellente e irrinunciabile.
Nonostante l’esclusività della visione, Tricky non è solo in questo suo trip asociale. A fargli compagnia, oltre al co-produttore Mark Saunders (già al mixer per quel “Raw Like Sushi” (’89) di Neneh Cherry che del trip-hop costituisce, per certi versi, la prova generale), c’è la vocalist Martina, suo (bellissimo) alter-ego femmineo, il prolungamento necessario per innervare il conflitto fra poli opposti e la confusione di gender posti a fondamenta delle sue pagine migliori. Siffatto ribaltamento di prospettiva sessuale trova massima espressione nella “ricostruzione” di “Black Steel In The Hour Of Chaos” dei Public Enemy, in cui la cantante prende il posto del “masculo” Chuck D e guida una danza noise-rock per chitarre sulfuree e sussulti ragga accelerati (ascoltare una donna che afferma di voler evitare il Vietnam perché “They could not understand that I’m a black man/ And I could never be a veteran” è piuttosto singolare, concedetemelo). Sulla copertina del singolo incriminato Tricky si pavoneggia da vera diva, con tanto di rossetto e ombretto azzurri, sfoggiando un’espressione a metà fra un broncio e un sorrisetto malizioso. Here we go again… Riecco la cara vecchia androginia squisitamente english.
Ma non è casuale che si finisca a parlarne, specie se si pensa alle decine di – più o meno improbabili – intervistatori disposti a patteggiare col demonio pur di scavare nella psiche di questo inquietante “Bowie nero” (“Se c’è qualcuno di cui vorrei essere amico sarebbe lui. Bowie ha infranto le barriere, ha cambiato per sempre il mio modo d’intendere la musica”) fotografato in abito da sposa nel booklet dell’album, in barba al machismo da sempre latente nella comunità black. E non si tratta nemmeno di semplice trovata pubblicitaria, dato che quella di vestirsi con abiti femminili è un’abitudine che Tricky si porta appresso fin da quando era ragazzetto e bazzicava i vicoli di Knowle West con la sua gang (fosse stato nei ghetti di L.A. l’avrebbero fatto fuori in un nanosecondo): piuttosto manifestazione, fra le tante altre cose, di un disagio reale nelle relazioni interpersonali (“Suffocated Love” è lì per dimostrarcelo).
Senza Martina la musica di Tricky semplicemente non sarebbe. E difatti non è più stata, dal preciso istante in cui i due hanno imboccato strade diverse. Ugola sottile, fraseggio bluesy, con un filo di raucedine che a volte s’intravede nell’esposizione: il suo timbro sembra generarsi dal/propagarsi nel vuoto artificiale, valvola mitrale di un muscolo mai così complesso. Laddove la Gibbons si immola a ultimo, doloroso vessillo di umanità da contrapporre allo strapotere delle macchine, quello di Martina è canto-trance per anime anestetizzate (la si ascolti in “Aftermath”, tossica wasteland in fermo immagine appena redenta da flauto incantatore, chitarra in wha-wha e granulosità del breakbeat), zona d’ombra in cui ogni inspirazione, ogni dentale acquista una valenza spropositata (“Overcome” e la sua cadenza lunare, meccanicizzata, altro capolavoro dark dello stile bristoliano).
Per converso, quello di Tricky è un rap che del rap non ha né la cadenza né gli accenti, pur conservando retaggi di slang e codici verbali condivisi; somiglia piuttosto a un gorgoglio afono, melma di verso libero che striscia in secondo piano fra i solchi, assorbito dalla nebula e ricondotto a semplice dettaglio del soundscape. È l’unione di questi estremi (l’orchetto sfiatato e la tipa emaciata) la vera “voce” di “Maxinquaye”. A volte è prima Tricky ad abbozzare un testo, lasciando alla sua “girlfriend” (lo era veramente) l’onere di leggere in quelle corde vocali ridotte a brandelli un pentagramma di luce e tenebre (si ascolti “I Be The Prophet” su “Nearly God”, uno dei punti più alti del loro interplay); più spesso i due cantano all’unisono, confondendosi in un unico corpo cavernoso, come emisferi sulla stessa lunghezza d’onda ma in dislivello di frequenza. È il caso di “Ponderosa”, tutta giocata su percussioni polinesiane e accorgimenti “atmosferici” di rara efficacia (tappeti ambient a intermittenza, misteriosi campioni vocali, addirittura una tastierina che nel finale accenna un ragtime), viscido spettro gocciolante paranoia e liquida sensualità.
Sensualità che in “Abbaon Fat Tracks” trascolora nel pornodolore ballardiano di due “stonati” sorpresi a contorcersi davanti al televisore, coi dialoghi che svaporano nella percezione indistinta, nell’alterazione psicologica dell’ambiente. Musicalmente parlando, sembra d’ascoltare la “Ghost Town” degli Specials (proprio Terry Hall collaborerà con Tricky per il progetto Nearly God) prosciugata d’ogni residuo vitalismo e doppiata su un nastro che s’inceppa, con le acustiche suonate steel a mo’ di aghi infetti che bucano le tempie. Ma è nella già citata “Strugglin’”che l’alchimiaraggiunge livelli di paranoia quasi insostenibili: se Tricky percorre alla cieca i corridoi della sua mente ridotta ormai a “deserto rosso” (“In hell I’ll be lost in the layers of weakness/ All aroud the surface, brainwashed with the cheapest”), Martina lo segue seminando vocali roche, orgasmi di lacrime (“Exhausted by the mundane semplicità no longer plain”), come un angelo catatonico incapace di redimere il tormentato compare (“Please, tell me what I want to hear” la implora lui, nel momento di massimo sconforto).
Dopo un simile concentrato di negatività, è per lo meno singolare che il disco termini con un’indicibile “Feed Me” di riflessi traslucidi, placenta ametista, l’eco di Madre Africa che si propaga attraverso i cieli e implora – unica volta – catarsi e rigenerazione (“How things are together we'll destroy/ and then we can destroy what we are/ together we can build what we are when we dream the spirit free/ we don’t give praise, we take praise, so why are we?”), auspicando infine il consolidarsi di un nuova era dello spirito (“We found a new place to live where we're taught to grow strong/ and strongly sensitive, it always sets the scenery”). Sbaglia però chi confida in un happy ending, giacchè vano è il tentativo di recidere il cordone ombelicale che incatena alla giungla di cemento dello “shitstem” (”Extract from crystal though nothing is clear/ I despise you, damn you, dream you, I love you/ but still nothing’s clear/ I think of when I found you/ keep on singin’ while im drowning, down into that two-tone vision/ I’ve been raised in this place and now concrete is my religion”).
Il riferimento alla poetica 2-Tone non deve stupire: come l’ondata ska, a cavallo tra ‘70s e ‘80s, era la colonna sonora per gli emarginati di un’Inghilterra buco-periferia, cesso in cui nuotavano decine di migliaia di individui senza futuro in attesa di uno “sciacquone” che ponesse fine a tanto schifo, così “Maxinquaye” trasfigura in rovine e deserti post-atomici l’aridità emotiva, sociale e intellettuale del suo tempo. Il bello è che Tricky non ha alcuna purezza da rivendicare, né può permettersi di moraleggiare come “il suo Shakespeare” Chuck D: egli è “parte del problema”, non principio attivo preposto a scuotere le coscienze. “Crescendo, tutti i tuoi sogni vengono uccisi, ad uno ad uno” dice lui. “Mi piacerebbe riavere quel che ho perso della mia adolescenza. Mi piacerebbe innamorarmi come quando avevo quindici anni. Rivorrei la purezza, essere di nuovo “pulito”, ma non posso perché sono anch’io stato risucchiato dentro”. La musica di “Maxinquaye” dà voce a questa mancanza, esternando la “coscienza della perdita” e il conseguente vuoto interiore da essa lasciato. È il suono dell’utopia che cede silenziosamente sotto i colpi d’ascia del vivere, l’interminabile convalescenza di una generazione che ha bruciato con la droga ogni possibilità di riscatto. Resta solo l’attesa inconsapevole, poi più nulla. Sarà da codardi, ma a volte questa resta l’unica soluzione ragionevole.
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