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6/10

Chevelle

La Gárgola

Sette album e non sentirli. O meglio: sette album e non farli sentire. Potrebbe essere questo il sunto della vita artistica degli Chevelle, gruppo americano alternative rock pervaso da connotazioni metal, nato al tramontare del ventesimo secolo sulla scia di quelle geometrie musicali che salutarono i Tool come i padri fondatori di una nuova forma comunicativa. Un percorso sfortunato, il loro, che ancora oggi fatica a riconoscerli nel vecchio continente nonostante l’innegabile valenza artistica dimostrata sfornando lavori come Wonder What's Next e Vena Sera, veri e propri manifesti programmatici dello Chevelle-pensiero, parzialmente intaccati dall’easy listening post-grunge delle ultime – rassegnate –  produzioni. Oramai sono passati 15 anni dal quel 1999 che segnava il loro esordio con Point #1 e ciò che rimane in tre lustri di incompresa carriera è spalmato lungo la loro ultima fatica discografica.

La Gárgola (traduzione spagnola di Gargoyle) è un caso di nomen omen sfacciato. La sintesi dello stato di grazia di una band che oramai vive accovacciata sul ciglio di una grondaia, pietrificata nelle proprie convinzioni ed intenta ad osservare il lento incedere del progresso altrui. Scrutando con caparbietà i flussi artistici che scorrono e si evolvono, anche i Chevelle muovono brevi passi in direzione di un loro personale progresso, che in La Gárgola si traduce nella spinta violenta di Ouija Board, un’incursione improvvisa in territori metal che regala un primo scatto di spiccata originalità grazie alla prova del vocalist Pete Loeffler. Accantonato il fantasma del Maynard Keenan di Aenima, Loeffler digrigna i denti e cerca nell’aggressività l’acchito più genuino.

Ma è solo un’effimera impressione. Gli Chevelle tornano repentinamente sui loro passi, cercano la via di comunicazione più semplice – quella celebrativa fatta di rimandi espliciti - che raggiunge il proprio culmine nel singolo Take out of Gunman, un sodalizio perfettamente bilanciato tra i Tool più icastici e gli A Perfect Circle meno ispirati. E tutto torna come prima: i tempi si restringono e i richiami si fanno invadenti. Si respirano brevi boccate d’ossigeno in One Ocean che coi suoi effluvi emo-pop propala armonie dolciastre che arrivano come un pugno in un occhio all’interno di un lotto di canzoni dal retrogusto livido e plumbeo.  E proprio mentre l’album si inietta nelle vene la furia liquida dei riff di Under the knife e An Island, si capisce che La Gárgola è la ricerca disperata di solcare il tempo a tutti i costi, lasciando un segno indelebile che però ancora fatica a rimanere inciso. E sul finale ci si rende conto che tanta violenza si dissolve al cospetto della fragile tensione di Twinge: arpeggi di chitarra in flanger, linee melodiche dilatate, groove trip hop ed una lieve eco degli ultimi Deftones a colmare un vuoto dolce e romantico. E si inizia a respirare una malinconia fugace che in realtà ha pervaso tutto l’album, trovando una sua collocazione ideale solo sul finale. Come se quel Gargoyle, appollaiato sul ciglio della grondaia, avesse capito dove sta la chiave di volta del progresso altrui. A questo punto non rimane che distogliere lo sguardo e puntarlo dentro la propria anima.

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