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R Recensione

5/10

Igorrr

Spirituality And Distortion

Collezionisti a perdere e cultori dell’ultraweird, sempre quelli, si sono tramandati per decenni la leggenda di una delle fate morgane cinematografiche più ambite di sempre dell’underground tricolore, L’inceneritore di Pier Francesco Boscaro degli Ambrosi, proiettato per la prima volta nell’agosto 1984 al Festival di Venezia e poi letteralmente scomparso nel nulla. Un paio di mesi fa, come un fulmine a ciel sereno, la buona novella: qualche anima pia, non è dato sapere come, l’ha caricato integralmente su YouTube. Non che mi aspettassi certo qualcosa di diverso, ma è da allora che mi domando continuamente se quella che ho visto sia un’opera di genio assoluto o una cialtronata senza appello (a voi l’ultima parola). Sono gli stessi due poli entro cui, da svariati anni, rimbalza la mia personalissima ricezione delle fatiche di Igorrr, la creatura del francese Gautier Serre, alfiere dell’autodenominato baroque-core o, più semplicemente (si fa per dire), erede digitale delle mutanti bizzarrie metalliche partorite con dolore dal crossover totale tra la seconda metà degli anni ’90 e i primi ’00.

Per chi non fosse entrato ancora in contatto con la proposta di Igorrr, ma fosse comunque tentato di salire a bordo, consiglio di partire dal singolo (vabbè) “ieuD”, tratto da “Savage Sinusoid” (2017), disco in cui per la prima volta Serre trasforma il suo progetto solista in una band con tutti i crismi: per farla breve, vi troverete ad adorarlo, o ve ne allontanerete schifati per tutta la vita. Ma dal momento che, come ci insegna il Monsignore del Salò pasoliniano, tutto è buono quel che è eccessivo, si può sempre puntare un po’ più in altro, sino a sfondare il cielo e precipitare nuovamente a terra: e l’eccesso per l’eccesso è la categoria ontologica fondante di “Spirituality And Distortion”, operetta post-moderna che, sin dal titolo, dichiara esplicitamente (e, perché no?, ironicamente) la propria intenzione di farla finita con la costruzione borghese del “genere”. Il procedimento formale, non nuovo, è di fatto una massiccia eutrofizzazione degli schemi impiegati nel recente passato: giustapposizione, frenetico cut’n’paste, interferenza e inquinamento ambientale, alternanza dadaista e schegge di situazionismo estetico. Come in coda davanti ad un generatore automatico di etichette stilistiche, si viene risucchiati e triturati fra le lame steroidee di un frullatore che tutto travolge nel suo moto: una fantasia barocca cyber-core in cui il soprano Laure Le Prunenec fa sembrare Carla Kihlstedt una rigattiera al mercato (“Overweight Poesy”), i fantasmi della morte rossa di Poe che percolano in un teatrale valzer blackened (“Nervous Waltz”), una schizoide fuga guidata dal clavicembalo di Benjamin Baŕdiaux (“Hollow Tree”), un altro minuetto disciolto in distorsioni neoclassiche (“Barocco Satani”), una fusion breakcore sotto anfetamine (“Very Noise”), un’esilarante polka scomposta su breakbeat e raffiche di doppio pedale (“Musette Maximum”). E così via.

Vi sono innumerevoli problemi con questo tipo di approccio alla composizione alt-metal, per quanto mi riguarda, ma mi rendo altresì conto che si tratta perlopiù di idiosincrasie personali, maturate nel tempo, che non farebbero granché bene all’equanimità della recensione. Mi limiterò pertanto ad alcune osservazioni di carattere oggettivo. La prima è di carattere temporale: per essere anche solo vagamente incisivo, un disco del genere non può durare quasi un’ora. Dopo meno della metà si è già strappato il biglietto per la sagra della ridondanza, con la vaga sensazione di aver già assistito a tutto ciò che d’importante aveva da offrire la particolare occasione: per accattivarlo, un ascoltatore va certamente sfidato, ma mai ingozzato, né ipersaturato. La seconda è di carattere cronologico: frugo nelle pieghe della tracklist di “Spirituality And Distortion” e vi trovo brandelli di Nile (gli orientalismi cinematici di “Downgrade Desert” ne rappresentano il negativo lirico), scampoli di Diablo Swing Orchestra, grandeur scenica à la UneXpected (che tanto unexpected, come in “Lost In Introspection”, poi non è) e una tensione al patchwork impossibile che punta convintamente nella direzione dei maestri Secret Chiefs 3. Impossibile, per chi conosce almeno qualche pagina di quelle epopee, non essere presi a schiaffi tutto il tempo dal deja senti. Sono reminiscenze di band ed esperienze culturali di quindici, venti, venticinque anni fa (non esattamente il massimo della contemporaneità), alcune delle quali peraltro già invecchiate precocemente. La terza è di carattere tecnico: non funziona la produzione tutta muscoli, che da un lato sovraespone con effetto cartoonisticamente innaturale le gonfie batterie triggerate di Sylvain Bouvier e dall’altro aggiunge strati sonori senza fine, in un’orgia sinfonica che sbanda e tracima infine nel folle ibrido della lunga “Himalaya Massive Ritual”.

Se ne esce frastornati, ma non nel senso che si sarebbe potuto intendere originariamente. Ed immagino che, se di tutta questa dispendiosa ode alla calcolata schizofrenia, a piacere davvero è solo il linearissimo e perforante death metal di “Parpaing” (con un George “Corpsegrinder” Fisher alterato digitalmente per l’occasione), qualcosa che non va ci debba inevitabilmente essere.

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