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R Recensione

7/10

Obake

Draugr

Quando si legge di un disco registrato on-the-spot, senza calcolo né premeditazione, dopo qualche giorno di libera improvvisazione, il pensiero di chi da anni ascolta e scrive compulsivamente di musica corre inevitabilmente a due possibili risultati: una freakkeria senza capo né coda buona per compiacere gli ego dei protagonisti coinvolti (se non scatta la giusta alchimia), oppure una fitta texture dialogica che dispensa ad un tempo sorprese e sorrisi (se l’interplay trascende il livello artistico della comunicazione, arrivando a stabilire un contatto personale tra i musicisti). L’omonimo esordio degli Obake, ancora oggi sorprendente, rientrava pienamente nella seconda categorizzazione e certificava l’importanza di uno dei progetti più rilevanti dell’ultimo decennio di ipertrofica attività di Eraldo Bernocchi (assieme agli ahinoi estemporanei Black Engine, che meriterebbero almeno una seconda chance). In appena un lustro sono cambiate moltissime cose. Il fidato Colin Edwin (ex Porcupine Tree, ora O.R.k. e Metallic Taste Of Blood) è subentrato a Massimo Pupillo. Il cammino è proseguito con un sophomore denso nei suoni e grandguignolesco nelle atmosfere ma, tutto sommato, un po’ interlocutorio (“Mutations”). Più recentemente, infine, Balázs Pándi ha ceduto pelli, bacchette e seggiolino a Jacopo Pierazzuoli (MoRkObOt, OssO, Blackwood, DENEB Kaitos). Il cerchio si chiude oggi, con l’arrivo del terzo full length, “Draugr”, assemblato in cinque giorni di session a ruota libera agli Igloo Audio Factory di Correggio. La testa dell’uroboro arriva a mordere la propria coda: come suonano, oggi, questi Obake?

La risposta è tanto più sorprendente quanto più si discosta ed evade dalle categorizzazioni sopra proposte. Detta in due parole, “Draugr” è il disco rock che non mi sarei mai aspettato Bernocchi e compagni potessero comporre, specialmente in condizioni di “montaggio” e non di “scrittura” senso strictu. Cosa significa, nel dato contesto, un semantema ormai del tutto generico quale è “rock”? Mettiamola così: per certi versi, “Draugr” è la risposta a distanza ad “Inflamed Rides”, l’esordio a tutto tondo di quegli O.R.k. che, con gli Obake, condividono non solo il basso pulsante di Edwin, ma anche la voce potente ed espressiva di Lorenzo Esposito Fornasari. Walmart etichetterebbe: alt metal novantiano, neo prog, new wave. Tutto vero, se non fosse che la gelida sei corde di Bernocchi è ben lontana dagli accenti mediterranei di quella di Carmelo Pipitone e il devastante riff d’apertura di “Cold Facts” (ridoppiato da una ritmica quadratissima) è una colata di metallo antitetica alla malleabilità tooliana di una, poniamo, “Breakdown”. Fornasari si concede solo qualche sparso, sporadico istrionismo pattoniano, ben presto ammorbidito in uno splendido ritornello a più registri, un incontro-scontro tra Alice In Chains e Faith No More. Simile è il trattamento cui va incontro “Hellfaced”: scartavetrata chitarristica portante di potenza inaudita (immaginate di sentire il percolato sludge dei Melvins di “Ozma” a contatto con una percussività quasi grind) e dilatazioni osmotiche, neo-psych, in un refrain che vive di una sottile sensualità notturna. Completa il trittico “Immutable”, uno spietato doom sabbathiano che vede lo scenico inserimento di soluzioni quasi grunge (Fornasari sembra qui, a tratti, Chris Cornell) e un momentaneo scarico di tensione su canalizzazioni dark ambient, punteggiate da increspature dub.

L’eterogeneità marchio fondante di fabbrica, insomma, rimane pur sempre tratto riconoscibile, ma la tracklist – incredibilmente – non tradisce mai la propria, sotterranea consequenzialità logica. Ascoltando certe costruzioni complesse e svariati, singoli passaggi, non può non sorgere il dubbio che si tratti davvero di sola improvvisazione, seppure addomesticata e riplasmata a posteriori. L’ouverture floydiana di “The Augur” (acustiche misteriche, bassi mesmerizzanti à la Laswell) sfociano naturalmente in ampi, descrittivi riff elettrici tormentati dal wah e dagli armonici naturali. In “Cloud Of Liars” è illuminante la sezione centrale, demandata al tempestoso intersecarsi della sezione ritmica (con i pattern di Edwin e Pierazzuoli a prefigurare, da lontano, i Primus più malleabili), laddove in “Serving The Alibi” va in scena lo schema precisamente opposto (liquidi phaser in fase di costruzione, ruggenti distorsioni per i ritornelli). La ricerca della melodia perfetta raggiunge il suo apice nelle rarefazioni dream wave della title track, un proscenio ideale per le modulazioni vocali di Fornasari (ma le concrezioni di beat di Leon Switch, nel remix di fine scaletta, ne esaltano ancor di più la sinuosa struttura).

Non tutto, va detto, convince allo stesso modo (i suoni di “Incineration Of Sorrows”, concentrati specialmente nel bridge, si avvicinano pericolosamente a certo fracassone nu metal che speravamo di aver accantonato per sempre), ma il risultato conclusivo vive di una linearità e di un’ispirazione assolutamente invidiabili. Anche se l’esordio, nella sua multiforme spontaneità, rimane l’episodio migliore degli Obake, “Draugr” segue a stretto giro di posta. Il classico disco da fare ascoltare alle nuove generazioni desiderose di smentire l’assioma globalista per cui rock is (irremediably) dead.

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