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4/10

Scars On Broadway

Scars On Broadway

Cronaca di un amore disilluso.

Al principio fu “System Of A Down”, 1998: sfondo nero con mano gialla, i growl di Serj Tankian, le pazze svisate di Daron Malakian, il basso roboante di Shavarsh Odadjian, le tumultuose cavalcate di John Dolmayan. Quattro nomi destinati a rimanere, se non nella Storia della Musica collettiva, almeno bene incisi nell’atrio del mio cuore. Quaranta minuti fra thrash metal, nu metal, hardcore e folk. Sì, eccellente. Ma tempo tre anni e tutto si sarebbe perfezionato, con quel “Toxicity” che suona impeccabile ancora oggi. Solo Dio (o il mio stereo, se vogliamo rimanere un attimino coi piedi per terra) sa quanto ho consumato quel disco, e non mi stupirei affatto se, rimettendolo nello sportello, non avesse più il suono nitido di un tempo. Non esagero a considerarlo il mio cd di sempre. Poi, altri tre lavori, in ordine forse decrescente: “Steal This Album!”, 2003, da molti ritenuto – a torto – solo una raccolta di scarti e b-sides, e il doppio “Mezmerize” - “Hypnotize”, 2005/2006, criticatissimo dai puristi e accolto invece con gioia dai neofiti con maglietta a strisce alternate orizzontali. Ma qualcosa era nel frattempo cambiato. La tensione era percepibile nell’aria, si poteva tagliare col coltello, ed alla fine ha prodotto ciò che non si sperava: la divisione fra i quattro membri del gruppo, seppur, a quanto pare, temporanea.

Il primo a rompere un mal augurante silenzio fu Serj Tankian, cantante e tastierista, appena l’ottobre scorso, col suo secondo album solista, “Elect The Dead”: una raccolta di buone canzoni mai troppo elettriche, mai troppo acustiche, con poche ma buone impennate ed un livello generale mediamente sufficiente. Si poteva dire, insomma, che la Chernobyl annunciata non si era poi verificata, anche se l’ostacolo della longevità si era presto rivelato insormontabile.

È solo nei primi mesi del 2008 che anche il chitarrista, Daron Malakian, esce dal suo oblio annunciando la sua nuova creatura (non chiamatelo supergruppo): Scars On Broadway. Per l’occasione, non si sa con quali lusinghe e/o minacce, risfodera alle pelli il suo collega Dolmayan come credenziale di successo, preoccupandosi poi di empire lo iato della formazione con strumentisti tanto passabili quanto anonimi, al livello di silenziosi turnisti, giusto per avere ancora una volta il controllo della situazione e monopolizzare la scena.

Malakian, diciamocelo bene, non è più quello di una volta. Non si sa cos’è successo, cosa, ad un certo punto, abbia impedito che la serenità rimanesse atmosfera quotidiana nei rapporti fra i quattro membri dei System Of A Down. Si può solo andare ad intuito, notando come l’equilibrio della band si sia incrinato esattamente nello stesso istante in cui il chitarrista cominciava a dimostrare particolari manie di protagonismo. Dal ruolo di chitarrista, si è passati gradualmente a chitarra e seconda voce, per finire poi a chitarra e voce principale, schiacciando in un colpo Tankian ed Odadjian. A vederlo oggi, chino sul mixer nello studio di registrazione degli Scars On Broadway, non sembra nemmeno più quel folle ventenne dagli strambi capelli e dagli occhi spiritati di appena dieci anni prima. La sua ora è una figura appesantita, controllata, quasi da business man – la stessa ideologia su cui all’inizio sputava e urlava allucinato –, con tanto di occhiali da sole e folta barba da guru, auto convinto e auto compiaciuto del suo ruolo di leader onnivoro.

Già a partire dalla pubblicizzazione del singolo trainante, “They Say”, una sorta di orripilante garage-punk prescolare con Malakian a scimmiottare tutto il tempo Jello Biafra, si poteva registrare una nutrita megalomania sul fondo. Il pezzo, reso disponibile il 28 marzo, era stato ampiamente strombazzato, con tanto di timer sul sito ufficiale e ritornello annesso, “they say it’s all about to end”, riportato appena sopra a caratteri cubitali. Come dire: il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Ma, se “They Say” è effettivamente il pezzo più brutto dell’intero disco, ciò non vuol dire affatto che il resto sia ben sopra la media. Anzi. Perché i quindici pezzi che formano “Scars On Broadway”, in uscita a fine luglio, sono all’insegna della ripetitività, della prevedibilità, della noia. E nulla, più della noia, sa come uccidere un disco sul nascere. Oltre che una copertina agghiacciante, come nel nostro caso.

Si ritrovano i System Of A Down, a larghe tratte, nell’opener “Serious”, impantanata da continui stop & go, nel riff portante di “World Long Gone”, condita con tanto di xilofono à la “Highway Song”, nell’incipit di “Babylon”, quasi uguale a quello di “Holy Mountains”, o in “Kill Each Other/Live Forever”, canzone pop rock piattissima e assolutamente anonima. Malakian esacerba i toni del tutto, già parecchio alterati, con delle linee vocali ancora più acute e stridenti di quelle che, contro natura, erano già emerse in “Mezmerize” e “Hypnotize”. Inutile sottolineare come l’ugola del chitarrista non sia quel che si dice dorata. Alcuni brani, poi, sono talmente inchiodati ad uno schema ormai asfittico da non poterne uscire fuori: ecco quindi che il brodino di “Enemy” viene inutilmente annacquato da un giochino di arpeggi che, una decade fa, Daron già suonava nei primi live dei SOAD, intitolandola “Drugs”.

Più si ascolta il disco e più ci si accorge di non poter essere pietosi, o di non volerlo nemmeno essere: pezzi come “Insane” o “Whoring Streets” sono riempitivi che irritano fino al subconscio, che costringono anche il fan più accanito ad un brusco skip, ballatine elettrificate che non portano da nessuna parte, nemmeno a forza. Nessuna genialità, nessuna sorpresa: sono brani che nascono e muoiono all’istante, privi di uno sbocco creativo. Malakian pare accorgersene ma, invece di porre rimedio, combina il disastro più totale: in “Chemicals”, crossover puntellato dalla doppia cassa con refrain orecchiabile, tenta a tutti i costi di imitare l’ampissima gamma di vocalizzi del collega Tankian, con risultati a dir poco imbarazzanti.

È quando gli Scars On Broadway si lasciano prendere la mano, uscendo fuori dai binari predispostisi e provando a viaggiare in campi differenti, che si possono vedere segnali, se non incoraggianti, almeno un minimo positivi: riuscito lo psych rock anni ’70, con tastiera schizoide, di “Exploading/Reloading”, il miglior episodio del disco, e non è così male nemmeno “Cute Machines”, metal balcanico irretito da una forma di screaming quasi prepuberale, seppur accettabile.

Ma è lapalissiano far notare come, con simili punti di riferimento, “Scars On Broadway” non riesca mai, nemmeno per un momento, a coinvolgere o decollare. Quarantaquattro minuti in cui non c’è energia, non c’è passione, non c’è varietà stilistica, non c’è onestà intellettuale. Il classico disco costruito ad hoc per battere il ferro finché è caldo, ed attirare le masse di giovani pseudo-ribelli che si eccitano così facilmente per una sfilza di “fuck” ripetuti ossessivamente a coprire le varie vacuità di pezzi improponibili. Malakian è alla frutta, e lo fa chiaramente capire nel discreto divertissement di “Stoner-Hate” (tua nonna!), dove esclama: “Supercalafragalistcexpealadocious is a word to me, just like a Mamma Mia”. Piena ed anarchica confusione, questa, che ormai gli ottenebra la mente (e una “Vicinity Of Obscenity” se la può sognare col binocolo).

Concludendo le tristi somme di ciò che rimane da questo disco, farò notare una cosa. Per la prima volta da quando mi sono innamorato dei System Of A Down, (ben) preparato dal singolo, ho deciso consapevolmente di non recarmi in un negozio di dischi per acquistare il prodotto in questione (cosa che, al contrario, avevo fatto l’anno scorso, a scatola chiusa, con “Elect The Dead”). Segno che, forse, qualcosa sta veramente cambiando, e che è ora di darsi una svegliata.

E allora sì, “I say it’s all about to end”.

Con un male lancinante al cuore.

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lucagalla (ha votato 8 questo disco) alle 1:04 del 12 ottobre 2009 ha scritto:

Bah...a me piace l'album degli Scars on Broadway...è una sorta di continuazione degli ultimi due album dei SOAD...al contrario degli album del cantante che mi dispiace dirlo ma primo non canta più come una volta, e secondo le sue canzoni non capisco dove vogliano andare a parare, secondo me voleva fare le cose troppo complicate e non gli sono riuscite, e a livello commerciale mi sembra che sia stato abbastanza evidente...Al contrario della recensione inoltre ritengo che "They say" sia una bella canzone una delle mmigliori dell'album in questione...ce ne sono molte altre comunque degne di nota all'interno ma non ricordo i titoli...anche alcuni lenti...il cantante chitarrista non canta male come aveva già dimostrato nei SOAD, e la chitarra direi che a modo suo la sa suonare ancora bene mi sembra......anzi rispetto l'inizio mi sembra migliorato e anche tanto...In conclusione è un album che consiglio, se sono piaciuti gli ultimi due dei SOAD questo è circa una loro continuazione ...Vorrei aggiungere che un po' come tanti altri grandi gruppi del genere anche i SOAD sono partiti da un genere molto duro, e particolare oltre che in un certo senso innovativo, e sono finiti col commercializzarsi diventando in molti casi più soft, ma secondo me mai perdendo la loro vena innovativa e la loro grinta, molte volte secondo me questa sensazione di "soft" dipende anche dal livello della registrazione, che magari nei primi album non è mai ottimale, mentre più avanti si va più si diventa precisi e minuziosi...andateli a sentire dal vivo, poi venitemi a dire se sono diventati più soft...