Cleric.
Retrocausal
Aleggia un senso di funesta tregenda sopra Retrocausal, uno show off volutamente eccessivo e grandguignolesco che, alle polverose assi di legno di prosceni provinciali, preferisce la penombra delle cantine, il rappreso sudiciume degli scantinati. Ci hanno messo quasi otto anni a riemergere in superficie, i misteriosi Cleric. di Matt Hollenberg, e a farsi bombardare dalle colossali detonazioni dellinatteso successore di Regressions (2010) si capisce perfettamente perché: ad influire sulle tempistiche non è stata tanto la recente iperattività del chitarrista e bandleader (attivo su altri tre fronti, di cui abbiamo disquisito a tempo debito: Simulacrum, John Frum, Shardik), quanto il sovrumano dazio di sangue richiesto dalla scrittura immensamente ambiziosa ed articolata di Retrocausal, un disco mostro e monstre si arriva davvero vicini al massimo fisiologico di unora e venti , una Gesamtkunstwerk artigianale che cavalca almeno tre decenni (con laspirazione o il peccato di presunzione, malcelata, di mettere un punto e a capo al quarto), un totalizzante manifesto avant metal che fagocita e cannibalizza pile smisurate di stili ed influenze.
Singolare notare, giunti a questo punto, come Retrocausal nel suo tentativo di mettere la freccia e superare a destra maudlin of the Well, Kayo Dot, Arcturus e UneXpected fra gli altri sia, sostanzialmente, un disco vecchio: nellimpostazione, nelle infinite tensioni contrapposte che lo dilacerano, nei pur pregevoli esiti conclusivi. Chi non conoscesse bene il metal del Nuovo Millennio (o ciò che ne rimane) potrebbe comunque continuare ad idealizzarlo prendendo a pietra di paragone un gruppo come i Cleric.: che di ogni erba fa un fascio, di ogni fascio un covone, di ogni covone un incendio. Ogni secondo una nuova idea, ogni minuto una nuova canzone, ogni canzone un segmento arbitrario di un flusso di coscienza incontenibile ed inarrestabile: i cLOUDDEAD del metallo evoluto (ma quanto evoluto?). Nellassoluto disordine degli elementi e della loro disposizione, tutto è in perfetto ordine. Gli ospiti, anzitutto: dallinconfondibile contralto zorniano che scartavetra la conclusiva Grey Lodge (come dei Painkiller convertiti al math-core: non male, soprattutto nella sua centrale decostruzione free form), al contributo cacofonico di Mick Barr degli Orthrelm nellatonale poltiglia psych-noise di Soroboruo, dalla chitarra aggiuntiva del bassista Daniel Ephraim Kennedy nella blesa esplorazione thrash-black di The Spiraling Abyss (contornata da meditativi segmenti dark ambient per arpeggi sparsi e flanger che, in qualche modo, sembrano tornare allovile dei Simulacrum) ai suggestivi volteggi violinistici di Timba Harris dei Secret Chiefs 3 a suggerire uninaspettata trasformazione sinfonica di The Treme (prima che il solito Hollenberg serri le fila su di un allucinato andantino funk-swing da avanspettacolo, fatto precipitare come da copione nel nulla). Quasi una riunione in minore dellintelligencija rumorosa statunitense, una serie di convitati di pietra chiamati ad apporre la propria firma in calce ad un manufatto che sbandiera, chiarissimo, il debito nei loro confronti: un passaggio di testimoni tra cerimonieri dellestremo.
Per quanto sia arduo e forse sterile trovare la quadra di dischi come Retrocausal, lavori concepiti esattamente per non farsi decifrare nemmeno dopo innumerevoli ascolti, non sarà tuttavia inopportuno individuarne alcuni temi ricorrenti ogni confusione è pienamente tale solo se ragionata. Questi topoi prendono, evidentemente, forma strumentale. Le tastiere, strimpellate dallurlatore principale Nick Shellenberger (lo stesso che negli Shardik si occupa del basso), hanno un ruolo a dir poco prominente: ad esse è demandata leclatante rottura della quarta parete, sin dal polimorfico attacco di The Treme (un dada metal scenografico tra Mr. Bungle e Diablo Swing Orchestra), per poi costeggiare il fraseggiare al fulmicotone dello spietato death-grind di Lunger (con certe, astrali aperture alla Dysrhythmia), chiosare le elaboratissime serpentine di basso e chitarra nella sezione centrale di Ifrit (dentro cè tutto il Frisell di Massacre e Naked City) ed inserirsi sottopelle in Resumption (prima con effetto cabarettistico, poi con apocalittica allure post metal: tredici minuti piuttosto densi), ritagliandosi infine lepilogo della vibrante Triskaidekaphobe (figlia rigettata dei non-luoghi metallici dei Kayo Dot di Hubardo) con un sardonico e spoglio chiaro di luna apparentemente scollegato dal corpo principale. Loro compagne dirette, e spesso compresenti, sono le percussioni di Larry Kwartowitz, che arricchiscono di angolature inedite il già ricco parco cromatico di un batterismo complesso e non consequenziale (ancora Ifrit, i drop di Lunger, i tribalismi ipercinetici di The Spiraling Abyss): come i Sepultura andati a ripetizione dagli Spastic Ink.
Il risultato, lo avrete capito, è sì corrusco e frastornante ai massimi livelli, ma ben lontano da quellimprevedibilità di cui vorrebbe farsi portabandiera: anzi, si può dire che Retrocausal, nelle irregolarità, trova la sua perfetta regolarità. Peccato che di dischi così anche se meno caotici se ne scrivessero già venti e più anni fa: basti contare tutti i riferimenti citati in corso di recensione. Mezzo voto in più, tutto sommato meritato, per lammirabile e apparentemente inesauribile dispiego di energie.
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