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R Recensione

8,5/10

Kayo Dot

Hubardo

Tempo fa – qualcuno, forse, se ne ricorda ancora – scrissi una panoramica generale sul metal del Nuovo Millennio, descrivendone le tendenze, le derivazioni, gli eccessi, i possibili sviluppi. Fu un lavoro lungo e non semplice, ma divertente e, per certi versi, sorprendente. Dedicai un paragrafo molto lungo alla creatura più sfuggente ed inafferrabile mai partorita dal ramo avantgarde, fosse esso analizzato da una prospettiva sincronica o diacronica: i maudlin of the Well. Arriverà un momento in cui, finalmente, si potrà affrontare di petto il nocciolo del discorso, ma non è ancora questo. Un paio di lettori accorti, all'epoca, mi segnalarono che, se molto avevo incensato la prima incarnazione fattuale del geniale polistrumentista Toby Driver, altrettanto accuratamente avevo rifuggito un'ulteriore propaggine, assai maggiormente determinante e significativa in termini di prolificità e dilatazione temporale: una fenice schizoide, contorta, magniloquente, sorta dalle ceneri dello split del collettivo del Massachussets, sorretta as usual dall'incostanza creativa di Driver, ed enigmaticamente intitolata Kayo Dot. Non fu dimenticanza, bensì precisa scelta. Scelta di occultare, di censurare, se preferite, una fase artistica rigogliosa e controversa del curriculum del Nostro: periodo fecondo per alcuni, destabilizzante per altri, incomprensibile per altri ancora. Da subito poco chiari, dei Kayo Dot, sono stati intenti e traiettorie: come se la direzione non fosse segnata con sufficiente convinzione, o l'ambizione fosse prevalsa sull'effettiva creatività. Quattro, cinque, sette membri, Tzadik, Robot Empire, Hydra Head, violini, chitarre elettriche, growl, strumentazione da camera, death metal, neoclassicismo, tempi dispari, accordature aperte, forma/canzone e canzoni mai in forma, psichedelia acustica... Un pastrocchio stilistico tanto altero quanto inconcludente, lontanissimo dalla Gesamtkunstwerk dei motW, che quasi mai (se si esclude, forse, il folgorante debutto “Choirs Of The Eye” del 2003) ha saputo scalfire le coscienze.

2013 significa, in breve, il primo decennio di vita della galassia Kayo Dot, oggi un settetto (se l'oscillante presenza della virtuosa violinista Mia Matsumiya nella line up può ancora fregiarsi di essere sua parte integrante) di volta in volta rinforzato da amici musicisti ed ospiti esterni. Una decade in cui tutto e il contrario di tutto è esploso nei meandri dell'azione frenetica, iperbolica, a tratti vanagloriosa di Driver: l'entrata trionfale al basso nei Secret Chiefs 3, la formazione di un supergruppo con la crema dell'intelligencija avant metal newyorchese (i Vaura, di cui parlammo, di nuovo parleremo a breve e che, ironia della sorte, il metal lo guardano solo da lontano), il solista “In The L... L... Library Loft” sotto Tzadik (2005), l'intimo progetto a due Tartar Lamb, svariate apparizioni con John Zorn e Gregor Samsa, altri cambi di costume vagheggiati e mai messi in pratica (il quartetto Stern, uno sconosciuto, criptico trio per chitarra, violino e percussioni). Irrintracciabile e non agevolmente classificabile, Toby Driver si è mosso in lungo ed in largo per l'underground statunitense con l'agilità di un furetto e la fermezza dello stratega, attentissimo a lasciare ovunque tracce di sé senza, per questo, venire catturato. La celebrazione egotica dell'esperienza Kayo Dot, e il taglio di un traguardo temporale comunque importante, vengono officiati con la consueta, logorroica bizzarria di sempre.

Gli ultimi saranno i primi, profetizzò un altro eccentrico. Aveva ragione. “Hubardo” – che è la traduzione di “lanterna” in enochiano, misteriosa lingua filosofica tutt'oggi rimasta indecifrata – è, nel suo eclettismo esasperato, il lavoro più facilmente assimilabile a “Choirs Of The Eye” e, tornando indietro nel tempo e con la memoria, alle proiezioni astrali, di bellezza eterea ed indicibile, dei maudlin of the Well. Se ascoltare esperienze in note come “Bath” o “Leaving Your Body Map” vi ha condotti sul ciglio del collasso emotivo, riempiendovi nel contempo di uno stupore magnetico per l'ascolto di qualcosa mai provato in precedenza, fareste bene ad ingoiare i pregiudizi che hanno incrostato la parabola dei cugini e, tappandovi il naso come prima di un'immersione subacquea, tuffarvi in questo universo alieno. Figlio di una sperimentazione estetica e concettuale senza precedenti, il sesto disco dei Kayo Dot – un monumentale doppio, interamente autoprodotto – colpisce, finalmente, a fondo.

Nervi saldi e cinture allacciate: l'impatto non è semplice, né semplificabile. Suicida dare il via alle danze con l'imponenza di “The Black Stone”, libera rapsodia in libera metrica dove Jason Byron (vecchio sodale di Driver ai tempi d'oro) è uno sgraziato, grottesco Omero death metal, risentito e rancoroso, e la cetra diviene una chitarra scordata che sprizza distonie jazz-noir a corrente alternata. Sei minuti insostenibilmente gravi e la tentazione, pulsante, di archiviare “Hubardo” come l'ennesima, lassativa incompiuta. Poi, improvvisamente, il brano comincia a cambiare forma: la girandola di arpeggi acquista massa e gravita, in un groviglio diabolico, attorno ad un nucleo che ruota su sé stesso a velocità crescente, mentre gli archi strisciano in un controcanto funereo, inevitabile preludio ad un tornado sonico, lacerante ed incalzante. È l'inizio della fine. Per i tredici e passa minuti di “The Second Operation (Lunar Water)”, Driver confeziona su misura un arrangiamento severo ed elegantissimo, un soave volteggiare neoclassico: l'autoritaria austerità degli ultimi These New Puritans, con i quali i Kayo Dot condividono immobilismo e stasi ascetica, e il candore della musica sacra – il Bill Frisell di “The Gnostic Preludes” sembra quasi accompagnare queste architetture canore, nude al punto da giungere, in leggera e costante dissonanza, all'intangibilità di un a capella cameristico. L'abbraccio angelico diviene catarsi tribale, ieratica, nella pompa black di cui è pervasa l'elettricità delle stupende chitarre di “And He Built Him A Boat”, come gli Alcest inoculati negli Yakuza di “Of Seismic Consequence”: perde violentemente l'equilibrio in “Floodgate”, avant metal caotico e brutale, sette minuti e mezzo di sfiancante odissea rumoristica; si dissolve nella goth-wave di “The First Matter (Saturn In The Guise Of Sadness)”, gli Have A Nice Life che si atrofizzano in una spirale discendente di synth, irreali rintocchi elettronici, note sparse di pianoforte (i Pyramids senza i Pyramids, chiosiamo così).

Dalle deviazioni alla sistematizzazione. “Hubardo” riesce ancora più luminoso e impressionante quando spinge l'acceleratore sotto la generica voce “metal”, e cioè: un flusso cosmico, a getto continuo, che diviene pugno e frantuma ogni resistenza. “The Wait Of The World”, conclusiva jam di un quarto d'ora e vertice del doppio, è jazz rock al massimo livello espressivo, interpretato con coraggio e metamorfismo da una chitarra frippiana profondamente math negli umori: il validissimo Keith Abrams, dietro le pelli, genera vortici di ritmo complesso ed equiscomponibile, mulinelli che intrappolano i sax colemaniani di Daniel Means e Terran Olson e li destrutturano in ondate di synth acidissimi – da non perdere il basso iper distorto di Driver, in un segmento Amphetamine Reptile perso tra reflussi Henry Cow. L'ampiezza dei riferimenti e delle influenze è testimoniata anche da “Zlida Caosgi (To Water The Earth)”, esaltante scintilla in direzione Dysrhythmia con un arpeggio astrale di base che emerge a tutto tondo, dalle fratture Naked City di “Vision Adjustment To Another Wavelength” (la cui seconda parte si reinventa psichedelia sci-fi, sbilenca, come dei Gigan con Champignon, ex Ozric Tentacles, in pianta stabile nella formazione) e, soprattutto, da “Crown-In-The-Muck”. Vale la pena spendere qualche parola aggiuntiva su quest'ultima, epopea death introdotta da fluttuanti incroci chitarristici in combutta con una mistica sezione fiati in guisa di Pharaoh Sanders, per rimarcare che quanto si sente è frutto, per la maggiore, di composizione e non di improvvisazione, di metodo e non di sola alchimia. Il brano eleva la fisicità del tech metal ad una nitidezza siderale, irrobustendo oltre misura il nucleo roccioso e sfumando i dettagli dell'elaboratissimo arrangiamento in una nebulosa di rara efficacia.

Difficile, impenetrabile, incompromissibile. E però. Se tanto, forse troppo, si è scritto su “Hubardo”, v'è tuttavia un motivo: invitarvi – per quanto distanti possiate voi essere dalla proposta dei Kayo Dot – ad un ascolto, almeno uno, realmente, radicalmente rivoluzionario.

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C Commenti

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tramblogy alle 9:59 del 23 dicembre 2013 ha scritto:

Ohhhhooo...Marco!quando parli dei deafheaven??!!!...buon natale a tutti!!ghghghgh

Marco_Biasio, autore, alle 12:53 del 23 dicembre 2013 ha scritto:

Ti sono piaciuti? A me hanno fatto veramente schifo Non ne ho parlato perché avrei dovuto piazzare un voto scandalosamente basso, a certi livelli diciamo che mi fermo. Buon Natale anche a loro ^^

tramblogy alle 16:01 del 23 dicembre 2013 ha scritto:

mah mah.....sigh....