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R Recensione

7/10

Ulcerate

Stare Into Death And Be Still

Difficilmente, in una futura retrospettiva, verrà derubricata come uno dei momenti fondamentali di ciò che rimane del metal evoluto del Nuovo Millennio. Eppure, nel suo, l’uscita di “Shrines Of Paralysis” (2016) segnò un importante cambio di passo per gli Ulcerate: fisiologicamente esauritasi (o quasi) la spinta pionieristica che aveva alimentato un’esplorazione pluriennale negli eccitanti territori vergini all’intersezione fra brutal death e post metal, il power trio neozelandese guidato dall’incredibile batterista Jamie Saint Merat decise di cominciare ad introdurre delle nuove variabili nei dettagli strutturali, un’inedita e rinnovata attenzione verso un “formato canzone” sui generis che, al ctonio movimento centrifugo di accelerazioni e dissonanze, abbinasse il tentativo centripeto di riordinare la scrittura attorno a vere e proprie frasi melodiche. Che non fosse allora una deviazione estemporanea ma, piuttosto, la prima fase di un progetto sulla lunga distanza lo testimonia, oggi, il sesto “Stare Into Death And Be Still”, prima uscita per la francese Debemur Morti dopo la scadenza di contratto con Relapse ed ennesimo, rigoroso saggio di maestria tecnica nel reame dell’estremo.

Il miglior modo per descrivere le composizioni di “Stare Into Death And Be Still” è quello di ascoltare con estrema attenzione il primo minuto dell’iniziale “The Lifeless Advance”: la chitarra di Michael Hoggard è uno scalpello setolato che disegna un’armonia di epico decadentismo, una sequenza complessa che possiede al contempo la durezza dell’acciaio e la visione panoramica della sinfonia. Si scatena poi l’assalto, ma le modalità sono marcatamente diverse rispetto al recente passato: si lavora di carico e scarico, di affondo e rilascio, articolando lo storytelling su quelle che, con non troppa fantasia, si potrebbero definire vere e proprie strofe. Il finale, poi, è all’altezza dei momenti più esaltanti dell’insuperato capolavoro “The Destroyers Of All” (2011): una Medusa géricaultiana alla deriva sotto i colpi poliritmici del sempre imprevedibile Saint Merat. La tendenza si accentua ulteriormente nei due momenti della tracklist immediatamente successivi: “Exhale The Ash” intaglia ghirigori wagneriani dentro quella che sembrerebbe un’efficace sintesi del primo decennio dei Neurosis, disintegrando poi l’affresco dell’orrore ottenuto con una sincopata sequenza chitarristica acid-black, un claustrofobico attacco frontale rimpallato dagli accenti jazz dei tamburi; la title track, infine, specialmente nella lunga ed elaborata ouverture e in una chiusura votata ad un inesorabile crescendo, presenta una delle evoluzioni melodiche più emozionanti dell’intero disco, un seascape ajvazovskijano che si direbbe svilupparsi all’ombra della Lacrimosa mozartiana.

Esigente come tutte le prove lunghe degli Ulcerate, ma dal carattere incomparabilmente meno selettivo rispetto ai capitoli precedenti, “Stare Into Death And Be Still” ha dalla sua un ulteriore pregio: quello di non suonare come un indivisibile atomo marmoreo ma, anzi, di rivendicare la propria natura di Gestalt, di corpo le cui parti siano dotate di un’assoluta autonomia. L’effetto sorpresa viene inevitabilmente meno (unica eccezione, l’inquietante blackened di “Visceral Ends”, che riecheggia in una twilight zone post punk di ammorbante oscurità), ma è l’unico scotto da pagare per il disco più strutturato dei neozelandesi: un racconto lungo che quasi mai soffre di cali di tensione. Un occhio di riguardo va al gran finale: tra le esplosioni che divampano improvvise nei sottovuoti ambientali di “Drawn Into The Next Void” e che, in coda, ricreano in scala l’inferno di Écoust-Saint-Mein e la tremolante apocalisse di “Dissolved Orders” (forse il brano più consono ai tempi oscuri in cui ci troviamo immersi), la sensazione è che si sia raggiunto nuovamente un punto di non ritorno e che sia difficile, per non dire impossibile, riuscire a fare di meglio.

Almeno sino alla prossima prova, s’intende.

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