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5,5/10

Bushi

Bushi

Novanta spade per gli anni ’90: una per trafiggerli, l’altra per smussarli, la terza per riflettercisi dentro. Estetica da samurai e concisione da manuale: i Bushi irrompono sulle scene con un curioso, omonimo lavoro lungo (si fa per dire: nemmeno mezz’ora) difficile da incasellare nel flusso e riflusso di scene e correnti individuabili in quella dentellata dolina che è l’underground italiano. Quattro i nomi provocatoriamente citati dal power trio per sintetizzare il proprio stile: Meshuggah, Primus, Beach Boys e Animal Collective – il che, in primo luogo, significa: complessità, estro ludico, concretezza melodica e tensioni cerebrali. Se il risultato finale deve considerarsi il tentativo di ristabilire un crossover totale, ben venga: perché questo, in definitiva, è quello che suonano Alessandro Vagnoni (Bologna Violenta), Davide Scode e Matteo Sideri (Ronin, Above The Tree And the E-Side, qui nell’inedita veste di voce principale).

La cosa migliore del disco è l’adozione di tecniche e linguaggi non esattamente popolari all’interno di un discorso globale che riesce ad essere facilmente assimilabile da tutti. Gli otto pezzi, tutti relativamente brevi (nessuno oltre i quattro minuti) e costruiti a strati (vi sorprenderete a tenere il conto dei cambi di ritmo e di passo), sono infatti assemblati in modo tale da arrivare subito, senza traccia di filtri o sovrastrutture: così il rifferama sincopato di “The Book Of Five Rings” (tra hard rock e groove metal, con un finale in slow motion preceduto da brevi sezioni post-core), lo stacco quasi Refused del chorus di “Hidden In Leaves”, il j-stoner funambolico di “The Cherry Tree”. Tutto, o quasi, si sviluppa e cresce attorno alle chitarre di Vagnoni che, per non essere un chitarrista, ha un ottima mano: un azzardo che paga quando la scrittura è all’altezza della situazione (bella l’intricata frase portante à la Faith No More di “Rolling Heads”, in manifesta dissonanza con la conduzione vocale), ma che diventa un rischio concreto quando l’ambizione non è all’altezza del risultato (il tentativo di epica tellurica di “Typhoons” crea uno sgradevole effetto da jingle) o quando lo spunto di partenza viene stirato oltre ogni limite (le fanfare di “A Well-Aimed Blow Of Naginata”).

Più in generale, si ha l’impressione – cementata dagli ascolti – che “Bushi”, più che un autografo vero e proprio, sia un tentativo di autografo, un’incompiuta per vedere l’effetto che fa. Ci sono passione e competenza, ma il disco – complice anche una produzione fin troppo bombastica, fuori luogo – non decolla mai veramente. Peccato.

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