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R Recensione

5/10

Daron Malakian and Scars On Broadway

Dictator

Lo vorrebbero ascoltare un po’ tutti, fosse anche per la soddisfazione di demolirlo senza pietà, ma pare proprio che – a differenza di quello dei Tool – un nuovo disco dei System Of A Down non si avrà né ora, né mai (pace, Anthony Fantano). Troppe le differenze, troppi gli interessi, troppi i galli nello stesso pollaio che, con il progressivo offuscarsi dell’âge d’or dell’alt metal tardo novantiano, di anno in anno diventa sempre più piccolo. Per gli amanti delle telenovele e del gossip spicciolo dell’ultima ora, queste sono le ragioni di Daron Malakian e questa la risposta, ferma ma argomentata, di Serj Tankian: per noi affezionati di lung(hissim)o corso, un motivo in più per tirare un sospiro di sollievo. Certo, dà fastidio che i quattro losangelini da anni calchino i palchi dei maggiori festival mondiali proponendo sempre il solito, raffazzonato e scadente teatrino per fan, senza alcuna novità né segnali di rinnovamento: ma non è da sottovalutare che il sesto full length dei SOAD, qualora si fosse concretizzato, avrebbe potuto avere le fattezze di “Dictator”, raccolta di vari brani composti disordinatamente lungo l’ultimo decennio per la band madre e poi mai definitivamente elaborati. Invece, col silenzio-assenso dei compagni (soci?), per riuscire a fare uscire il disco Malakian è costretto addirittura a ricorrere all’autoproduzione e a resuscitare la dimenticabilissima sigla Scars On Broadway (ora significativamente subordinata al lider maximo, che abiura i turnisti e suona da solo tutti gli strumenti).

Non tutto il male viene per nuocere e, d’altro canto, non occorre rovesciare sugli Scars On Broadway più acrimonia di quanto già non avessimo fatto dieci anni fa, quando stroncammo il loro pessimo esordio omonimo. Difficile è anche capire cosa pretendere esattamente da un musicista ultraquarantenne, sopravvissuto al suo tempo, la cui parabola artistica non ha mai conosciuto una reale evoluzione e la cui fonte creativa era andata essiccandosi già nell’ultimo periodo di attività – figuriamoci oggi, alle prese con uno iato così lungo. Rispetto a “Scars On Broadway”, se non altro, “Dictator” non ha nessuna pretesa di sostituirsi alla band madre, di costituirne un’estensione fittizia: il che, a ben vedere, non è un risultato di poco conto. Le coordinate stilistiche, ovviamente, quelle sono e non possono certo cambiare oggi, se non in direzione di una coloritura folkloristica più accentuata che in passato: escludendo la semplicistica pacchianata di “Lives”, ennesimo innodico peana alle vittime del genocidio armeno (con un video, compartecipato da cinque diverse compagnie coreutiche, che è il trionfo dello stereotipo culturale), si lasciano ascoltare la discreta “Fuck And Kill” (un arcigno kolo spaccaclassifiche dai breakdown nu metal), il carosello arabescato di “Never Forget” e il sirtaki phaserato inserito come filler nella cadenzata “Talkin’ Shit”. Nulla di veramente interessante, lo si capisce, ma il divario con i brani davvero brutti è così evidente da non poter non creare qualche imbarazzo: pollice verso, in particolare, per lo stantio crossover di “Angry Guru” (una versione dei Faith No More addomesticata e ripulita da ogni asperità), per la pedante e staticissima “Guns Are Loaded” (una “Lost In Hollywood” con centrale rialzo del contagiri), per l’impacciato passo di danza del lentone “Till The End” e per il banale hardcore punk di “Sickening Wars”.

Possiamo poi trascorrere giorni interi, volendo, a fare le pulci su ogni aspetto di “Dictator”, dal citazionismo opprimente (inconfondibile il timbro della title track) all’effettiva opportunità di far vedere la luce a pezzi che, anche solo quindici anni fa, non avrebbero trovato nemmeno la via delle demo. Dibattito sterile: la situazione è questa e ci si deve accontentare. Piuttosto, sarà interessante vedere come risponderanno le generazioni che, per ragioni anagrafiche, non assistettero al boom dei System Of A Down di “Toxicity”: il mito regge o il tempo è tiranno per tutti? Buone le due cover in chiusura: il traditionalGie Mou” tutto nostalgia e sentimento (tra i vari interpreti, uno dei più noti è Stamatis Kokotas) e l’avvincente trasformazione metallica cui va incontro la storica “Assimilate” degli Skinny Puppy.

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