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R Recensione

5,5/10

Philm

Harmonic

La notizia, sostanzialmente, è che Dave Lombardo – nonostante tutte quelle pompose e roboanti dichiarazioni di rito in cui dichiarava di essere pronto a suonare speed metal fino a settantacinque anni… – si è stancato degli Slayer. Anzi: si è stancato di essere considerato sempre e solo come il batterista degli Slayer. Già a metà anni ’90 l’aveva fatto intendere, in maniera non troppo velata, cedendo il passo al polipo Paul Bostaph, suonando per cani e porci, ritornando poi all’ovile oberato di nuove responsabilità (il batterista di John Zorn, il motore dei Fantômas, voglio dire!) e dovendo affrontare l’inevitabile passo del gruppo madre, avviato verso la senilità pensionabile con una serie di dischi incolori ed insapori. Insomma, Dave per ora non è uscito dal gruppo, non ancora, ma è chiaro che alla soglia del doppio –anta non rimanga altro da fare che guardarsi attorno e ripartire, se non da zero, almeno con una rinnovata voglia di divertirsi. Così, quando si definiscono i Philm il nuovo gruppo di Dave Lombardo, non è che si vada a sparare troppo in alto, troppo lontani dalla verità, e non perché Pancho Tomaselli dei War e Gerry Nestler dei Civil Defiance siano solo dei comprimari senza spessore aggiunto. “Harmonic”, esordio del funambolico power trio, gira tutto attorno ad un unico quesito: come frammentare l’azione percussiva su quanti più fronti possibili, per scansare immediatamente il pericolo di dejà senti?

Sono anni che ho smesso di valutare i dischi solo per il loro contenuto tecnico, o solo per come vengono suonati. Un’idea non si palesa sempre e solo a suon di strumentazione ricercata. Può celarsi dietro un semplicissimo riff, una registrazione cessofonica, un complesso ambientale e casuale impossibile da districare a parole. Avere mani d’oro e soldi quanto basta aiuta, ma non supplisce. “Harmonic” viene suonato magnificamente, anche troppo magnificamente, in un apprezzabile e dinamico variare di stili e soluzioni, lungo un’ora e passa in cui, pur tuttavia, non succede assolutamente niente. Non si tratta, a scanso di equivoci, di una grossolana contraddizione in nuce: aldilà dell’ammirazione esteriore, estetica, superficiale, non rimane nulla. Nulla sembra fatto per rimanere, solidamente. Le quindici canzoni esibiscono puri talenti: Dave Lombardo è uno dei migliori batteristi metal di sempre, capace di sfrondare generi e barriere con movenze sempre feroci, ma dotate di un eclettismo e di una fantasia interna rara a manifestarsi; Tomaselli lavora con intelligenza su ritmiche secche, taglienti e sempre pronte ad aprirsi in virtuosismi incendiari; Nestler è un chitarrista d’impostazione classica, che alla pentatonica sostituisce un melmoso concentrato di canonico, potente crossover anni ’90, capace di oculate divagazioni in territori ricercati. L’analisi del disco potrebbe, a conti fatti, terminare qui, perché i brani in sé nulla offrono se non spettacolo.

Perché andare a scavare nel passato, allora, per dire cose che già tutti sanno, per sentire amalgamarsi campioni che già conoscevamo bene, per scrivere canzoni già scritte mille volte? Se si deve trovare un merito ai Philm, questo è l’impegno di sintetizzare un decennio rumoroso in un unico, omnicomprensivo platter che possa servire da riferimento per chi vuole iniziare a masticare quelle epopee con deferenza, a respirare quei sudori con attenzione, ad ingurgitare quella rabbia senza timore d’indigestione. In una raffica di riff in contorsione, che sembrano perennemente usciti dalla fabbrica di Tom Morello (il decollo di “Sex Amp” è da citazione in tribunale!), escono, a tratti, begli spunti melodici (il chorus di “Area”), conclusioni inaspettate (la coda di “Hun”), bombe noise al vetriolo crivellate di colpi (gli Helmet di “Vitriolize”), felpate movenze ambientali annacquate in testi inconsistenti e riverberi narcolettici di chitarra, distorti in spericolati assoli hendrixiani (“Way Down”), terrificanti banalità giocate sulla ripetizione di un solo riff ora stancamente RATM (pessime le timbriche urban di “Amoniac”), ora inutilmente pestone (“Dome” è nu metal da dimenticare), ora teso a scartavetrare senza nerbo, in un’evocazione di devastante chiasso (dis)armonico à la Barkmarket che esalta per il tiro, e nulla più (“Meditation”). Gli “harmonics” del titolo saltano fuori, a dir la verità, quando meno ce lo si aspetta, in una title-track che è riuscita levitazione psichedelica spennellata jazz, nella gorgogliante jam hard-fusion di “Exuberance”, lanciata su ritmi e volumi sempre maggiori – superba prova strumentale! – e nelle inedite brume dark di “Held In Light”, twang noir riflesso nella wave pre-ottantiana ed elettrificato a tradimento. Poco altro da dire, nulla per chi si è cibato a lungo su questi lidi.

Peccato, Dave. Ma non fa niente. Se molli gli Slayer, magari buttati sui Metallica, ché di botte in testa in botte in testa…

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