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R Recensione

5,5/10

Tomahawk

Oddfellows

Nella macro categoria dei “dischi-Patton”, vengono a trovare posto decine di sottoetichette. Il disco tributo, il disco serioso, il disco complesso, il disco d’avanguardia, il disco da esplicita presa per il culo, il disco passabile, la pisciata fuori dal vaso. Roba che richiede un discreto lasso temporale per essere posta in atto ma, d’altronde, l’istrione di Eureka, California (nomen omen…) ha da poco compiuto quarantacinque anni. Quarantacinque, ve lo immaginate?, proprio lui, eterno ragazzino dallo sguardo mefistofelico, sperimentatore eterogeneo, egocentrico da spavento, mai destinato ad invecchiare. Eppure. E, a voler fare le pulci, non che i suoi compagni di viaggio – quelli dei Tomahawk, se non altro – anagraficamente se la cavino così alla grande: quarantacinque anche per John Stanier (Battles, ex Helmet) e Trevor Dunn (che al basso, oggi, viene chiamato a sostituire Kevin Rutmanis, ex Melvins), oltre i cinquanta per Duane Denison. Non significa nulla, lo sappiamo. Ma che una certa maniera professionale sia entrata a far parte integrante del sistema d’espressione di questi grandi musicisti è dubbio che non scandalizza più. I fatti, in parte, lo confermano.

Così “Oddfellows”, quarto disco del combo americano che arriva, a sorpresa, ben sei anni dopo il bislacco omaggio ai canti dei nativi in “Anonymous”, suona zappiano nel senso ludico ed estroverso, giocherellone e mai perfettamente compiuto. In altri tempi lo si sarebbe definito un divertissement. Qui, oltre al cazzeggio nudo e crudo, c’è anche la volontà – ulteriore? deteriore? – di approcciare l’easy listening à la Tomahawk, ossia, di scrivere un album compatto, diretto, potabile, meticoloso al dettaglio senza snaturare la presa complessiva, con gli strumenti contorti e non convenzionali in dote al crossover tardo-novantiano del gruppo. Missione fallita, perché “Oddfellows”, che nasce probabilmente per stupire, inanella una serie di episodi che, dallo stupire, sono lontanissimi: prevedibili nella loro sequenza a corrente alternata, nel mescolarsi di generi ed influenze, con la sola sottolineatura su un già annunciato gradiente di “facilità” sul quale si giocano, peraltro, tre brani importanti nell’economia della scaletta (il brutto rock da strada di “Stone Letter”, il grunge quadrato e dissonante di “South Paw” e le sciabole taglienti di “White Hats/Black Hats”, che si aprono in un refrain infiocchettato da coretti glam).

Per il resto, il disco è così divertente e divertito che tenerlo su non costa nulla: anzi, fa solo piacere. Il problema si palesa quando si richiede qualcosa di più dall’ascolto leggero e disimpegnato, ché “Oddfellows” non offre molto di più, molto di diverso. Alcune trovate colpiscono in pieno il bersaglio, come le slide lizardiane di “The Quiet Few” che si strozzano in un bagno di sangue noise, un crescendo marziale di potenza e furia legittimato dal pedigree dei quattro primi protagonisti, o una title-track che caracolla, oscillante e stonata, su arpeggi post-core e residui southern mandati ad imputridire. Altre lo mancano in maniera piuttosto vistosa, con un Patton che gioca ancora a fare la parte del fan del Morricone primo-Argentiano (“Rise Up Dirty Waters”, subdola e bisbigliante, con siparietto dada-metal a serrare le cerniere nel mezzo) o crooner luciferino per blues perforati e senza scheletro (“Choke Neck”). Gli scivoloni ci possono stare. Ma come giustificare la sconfinata medietà che gode dei due litiganti, palesandosi negli storti palm mute con melodie Minerals di “A Thousand Eyes”, nel surreale cabaret chill di “I.O.U.”, nella Mulholland Drive infestata da fantasmi noir-jazz di “Baby Let's Play____”? Non si può, non si riesce. Meglio, a questo punto, lo Django scatenato di “Typhoon”, palese rinuncia a qualsiasi cerebralità per vigoroso urlo metallico tangente hardcore.

Produce Collin Dupuis, sorto a notorietà per i successi con i Black Keys. Un peccato non si possa nemmeno definire presa per il culo: ad “Oddfellows” calza meglio la mise di giro bucato.

V Voti

Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 3 voti.
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dave 7,5/10
Emiliano 6,5/10
skyreader 5,5/10

C Commenti

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dave (ha votato 7,5 questo disco) alle 17:12 del 13 febbraio 2013 ha scritto:

Non riesco ad essere in accordo con la recensione. Secondo me è un buonissimo disco.

Emiliano (ha votato 6,5 questo disco) alle 19:22 del 17 febbraio 2013 ha scritto:

Speravo ti sbagliassi Marco, ma anche questa volta ci hai beccato. Recensione inappuntabile come sempre, e il disco in effetti è il più debole fra quelli partoriti dai Nostri. Sinceramente non capisco dove volessero andare a parare, il tutto ascoltato una decina di volte lascia in bocca il sapore di un'eversione per educande, o comunque ordinata e piegata non per spinta poppettara (lì il Nostro coi Peeping Tom a mio avviso ci aveva preso) ma per e a logiche che collla musica nulla hanno a che fare. Poi il disco scivola abbastanza, ma se voglio cazzeggiare ascolto i Twisted Sister e sono contento. Le mie obiezioni, comunque, si possono ben sintetizzare in un :" Troppo pochi Jesus Lizard".

skyreader (ha votato 5,5 questo disco) alle 21:17 del 19 febbraio 2013 ha scritto:

Da fan verace dei primi due Tomahawk non posso che, ahimé, essere concorde dall'analisi fatta da Marco: tanto differente nelle finalità da non sembrare un disco ascrivibile allo stesso progetto. Peccato perché ero davvero felice di questo ritorno. Eppoi il titolo dell'album era così bello, perfetto per essere ancora inesorabilmente "storto"... ;o)

skyreader (ha votato 5,5 questo disco) alle 21:18 del 19 febbraio 2013 ha scritto:

Da fan verace dei primi due Tomahawk non posso che, ahimé, essere concorde dall'analisi fatta da Marco: tanto differente nelle finalità da non sembrare un disco ascrivibile allo stesso progetto. Peccato perché ero davvero felice di questo ritorno. Eppoi il titolo dell'album era così bello, perfetto per essere ancora inesorabilmente "storto"... ;o)