Meshuggah
Koloss
LUomo e la Macchina. Nellesatto istante in cui Charlot, messo sotto pressione dal padrone della fabbrica e preso per matto dai colleghi che condividono con lui ansie e sciagure sullodiatissima assembly line, viene ingoiato dalla bocca vorace del nastro trasportatore, mentre cerca disperatamente di recuperare lo snervante ritmo di avvitatura e saldatura bulloni correndo dietro ad alcuni pezzi non finiti, lì i modern times del 1936 diventano i saddest times delletà postbellica e, immaginariamente, per paradosso diacronico e discontinuità temporale, nella mia mente risuona un riff. Cacofonico, dominato da diesis ribassati allinverosimile, giocato su semitoni e cromatismi, spezzato su minime variazioni e contorto in poliritmi apparentemente alieni: il corrispettivo androide di quella dodecafonia schönberghiana di cui leccelso Adorno, avversandone la voluta e monotona distonia, esaltava invece lo spiccato carattere metamorfico e la crudezza esteriore, vero specchio delle brutture, delle storture della dittatura esterna, fattuale, sociopolitica.
A Charlie Chaplin non sarebbero piaciuti i Meshuggah, affatto. Eppure solo le geremiadi futuristiche degli svedesi sembrano in grado di raffigurare oggi, a distanza di venticinque anni dalla loro formazione, più che mai la bassezza di una condizione umana in cui niente, nemmeno il carattere liberatorio dellurlo, la catarsi purificatrice della saturazione sonora, la conclamata ribellione verso schemi e strutture imposte dalle alt(r)e gerarchie, sembra poter essere ancora in grado di riscattarne il decadente maquillage. Persino latemporalità della spiritualità pura e genuina, dellintrospezione filosofica, della ricerca del trascendente è diventata merce, articolo omologato nella massa degli altri articoli, come il precedente obZen (calembour non così difficile da scomporre) sembrava suggerire. Per contro, uninaspettata (d)evoluzione stilistica accompagnava la svolta nullistica di quei solchi, ingabbiando la gelida libertà post-death delle fulminee sassate del quintetto svedese entro una restaurazione sommaria di quel thrash, selvaggio e belluino, che loro stessi, per primi, avevano contribuito a devastare, a mettere in ginocchio: loscenità, questa sì, di una ennesima svolta, conservatrice allora, ma non meno coraggiosa.
E cosa dire, adesso, di Koloss, settimo disco in studio, che segue di appena un anno il pregevole dvd, registrato dal vivo, Alive? Oltre i discorsi per massimi sistemi, che certo non potranno interessare chi il gruppo lo conosce bene ed avranno annoiato, a prescindere, anche i neofiti, vi sono un paio di interessanti appunti da scribacchiare al margine di un ascolto ecco il primo! sostanzialmente poco gravoso, ancor meno pesante. La propensione dei Meshuggah nello scrivere canzoni, nel loro, personale senso deteriore del termine, approcciato con Catch Thirtythree e portato a naturale compimento sul già citato obZen, continua, senza sostanziali sconvolgimenti, anche in Koloss. Impossibile tacere di mortiferi carnai come The Demon's Name Is Surveillance, tremenda tempesta thrash-death in cui Jens Kidman demolisce Max Cavalera e le chitarre di Fredrik Thordendal e Mårten Hangström, sullo sfondo di uno scorticante rifferama in accelerazione lineare, delineano tratti essenziali di degenerazioni (post)post-core: difficile non scorgere la straniata, dissonante pesantezza di Bleed in Break Those Bones Whose Sinews Gave It Motion, che distribuisce una convulsa sfilza di controtempi al servizio di filo di ferro tech metal, appena alleggerito da tetri assoli cristallizzati, per secondi, su singole note, riverberate ed alienate dal contesto principale; scabra ed uniforme, grazie anche al più potabile approccio groove, anche la prova classica di Do Not Look Down, episodio minore negli equilibri della scaletta, ma cupa ed arcigna sino allo scoccare dellultima nota.
Dunque si arriva ad afferrare il fulcro del discorso, laspetto che maggiormente impressiona di un disco meno ricercato dal punto di vista contenutistico, più controllato e standardizzato: lo studio delle code. Lapocalisse, perché di apocalisse si tratta, si concentra negli ultimi trenta, quaranta secondi. The Hurt That Finds You First infuria con la potenza muscolare del brutal death, crescendo in tenebrosità e ferocia di passaggio in passaggio, finché un riff fusion, terzinato su tempi dispari, non proietta le sue minacciose ombre sulle macerie di un brano andato ormai irrimediabilmente in frantumi, con micidiali effetti grandangolari. Nello sviluppo della progressiva, ragionata Behind The Sun, lurlo disperato di Kidman rimbalza contro le corazze rilucenti delle due sette corde, strozzato in un bagno di sangue: la peraltro canonica Swarm si rifugia, sul finale, dietro a un muro impenetrabile di chitarre luccicanti, proiettate verso uno strapiombo che sporge in un vertiginoso vuoto; The Last Vigil capovolge i singhiozzi sincopati ed iper-verbosi delliniziale I Am Colossus, con desolate trame strumentali che uniscono il gusto paesaggistico del Buckethead solista con le liquide, fosche levitazioni degli Atheist.
Puntato perennemente su di noi, locchio di HAL 9000 suggerisce una rivolta senza sobillatori, una vittoria senza vincitori, una sottomissione senza schiavizzati: non è stato impedito allincubo di diventare realtà e, certo, non è scappando dalle proprie paure che si potrà trovare il bandolo della matassa. Hanno passato da tempo la loro golden age ma, chissà, se per allora avremo ancora i Meshuggah al nostro fianco.
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