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R Recensione

6,5/10

Napalm Death

Apex Predator / Easy Meat

Abbiamo, forse, travasato Eraclito. Un mare di informazioni è nessuna informazione. Ci sfuggirebbe il motore della vita, la sua stessa essenza, se arrivassimo a non poter più contare sulle propaggini variamente virtuali che – da leale ausilio nella rincorsa all’evoluzione e alla complessità della contemporaneità – si stanno sostituendo al nostro cervello, ai nostri sensi. Le sinapsi, e non solo la carne di cronenberghiana memoria, stanno diventando radicalmente nuove. Così che a contare è il colpo d’occhio, la belligeranza dell’impressione: non più il ricordo (si guardi sempre avanti), non più l’approfondimento (chi ha tempo non perda tempo). Bombardati a tutta spiana da una portaerei che sputa titoli e sunti bradburiani anziché ordigni, ci rifiutiamo anche solo di memorizzare quanto succede: va subito lasciato il posto a quanto si sta per annunciare. L’analogia presta il fianco: un mare di musica è nessuna musica. Importante è piluccare ovunque senza soffermarsi da nessuna parte, volteggiare incessantemente da un capo all’altro della propria libreria e millantare il possesso, non l’interiorizzazione: così che diecimila dischi sono forse venti, o trenta, diecimila ore sono a malapena un millesimo. Tutti scrivono di tutto senza timore di smentita: non c’è tempo, non c’è spazio.

Un disco come “Apex Predator / Easy Meat”, il sedicesimo lungo per i Napalm Death, si erge – fiero della sua cocciuta antimodernità – a paladino dei tempi perduti. Come per tutti i capitoli da “The Code Is Red… Long Live The Code” in poi, diviene impossibile abbracciare in un solo ascolto le sfaccettature di un suono che, immutabile nelle sue fondamenta, si arricchisce e si espande progressivamente nelle propaggini, inglobando una quantità di sottostilemi ardua a rintracciarsi se non attentamente, pazientemente. Chi vi dirà che i quattro di Birmingham hanno scritto il “solito” album, insomma, mente: spudoratamente, pervicacemente. Il “superpredatore” che si nutre di “carne a buon mercato”, peraltro, rimanda a sovrastrutture politiche ben più sottili: ed ecco che si ritorna al discorso di cui sopra. Il richiamo metaforico porta direttamente al disastro del 24 aprile 2013 quando, a Savar (un distretto di Dacca, capitale del Bangladesh), collassarono i primi piani di un mostruoso edificio commerciale ad otto piani, il Rana Plaza: una tragedia annunciata (già da giorni l’edificio mostrava segni di instabilità) in cui perirono 1129 operai delle fabbriche tessili ivi abusivamente ubicate. Ben difficile da richiamare alla memoria per chi, sull’onda della smania del giornalismo occidentale, seguiva le bombe alla maratona di Boston, assisteva alla seconda rielezione di Giorgio Napolitano e vedeva insediarsi, a capo del precario governo italiano, la meteora Enrico Letta. Eppure quello del Rana Plaza rimane, ad oggi, il più grave incidente sul lavoro della storia moderna.

Ci volevano i cavalieri del grindcore moderno a ricoprire il ruolo, di denuncia, che un tempo fu (e oggi non è più) dei songwriter, sempre più chiusi nel loro egocentrico e stereotipato vittimismo. Non in molti, oggi, si potrebbero permettere un disco come “Apex Predator / Easy Meat”, che neppure per un istante molla il freno ed arretra di un passo. A ben vedere, sono le stesse parole che spendemmo all’epoca per il solidissimo “Utilitarian” e, in misura minore, per “Time Waits For No Slave”: con una sostanziale differenza. La varietà del full length precedente viene qui immolata in favore di uno stordente, potentissimo muro di suono, al solito estremamente malleabile nelle sue emanazioni (pare di ascoltare i Converge di “When Forever Comes Crashing” in “Cesspits”, le chitarre acide e fuori controllo di Ben Weinman in “Stubborn Stains”: è forse il lavoro più tecnico mai scritto dai Napalm Death), ma non scevro da una certa preferenza accordata a soluzioni storiche (“Metaphorically Screw You” è il sunto perfetto: politica, ironia, riffaggio, velocità death-grind a rotta di collo) e, a tratti, un po’ fruste (l’hardcore come lo si suonava vent’anni fa in “Stunt Your Growth”, il classico D-beat, con staffetta tra blast e basso, in “Timeless Flogging”).

A parte, poi, i numerosi episodi gratificanti, che testimoniano di un gruppo in gran spolvero, per lunghi tratti ancora inimitabile. Fatta eccezione per l’apertura, roboante ed apocalittica, della title-track (come dei Neurosis neozelandesi in rewind, vagamente fuori luogo), colpiscono duro gli accartocciati lamenti post-core di “Slum Landlord”, il thrash-core miasmatico del singolo “How The Years Condemn”, una frenetica “Hierarchies” che scivola verso un inusitato ritornello melodico (paragone istantaneo con “Fall On Their Swords”) e, naturalmente, i cinque minuti abbondanti di “Adversarial - Copulating Snakes”, devastante math-core che devia verso una cupa conclusione sludge. Tutto magnificamente orchestrato, con la ciliegina sulla torta di “Smash A Single Digit”, il brano più abrasivo e devastante regalatoci dai Napalm Death negli ultimi dieci anni.

Avremo anche perso la memoria del Ventesimo Secolo: ma gloria a dischi del genere, coi quali possiamo sperare di recuperarla almeno in parte.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 4 voti.
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C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Paolo Nuzzi alle 14:05 del 13 febbraio 2015 ha scritto:

Che band straordinaria. Meritano di sicuro i miei ascolti, lo cercherò.

Marco_Biasio, autore, alle 21:53 del 13 febbraio 2015 ha scritto:

Grazie del passaggio, Paolo. Se ti è piaciuto Utilitarian ti piacerà sicuramente anche questo!

fgodzilla alle 17:31 del 19 febbraio 2015 ha scritto:

un disco oserei dire sommo Biasius quasi POP .........hahahahahahahahahahaha.........ce ne fosse di gente cosi ce ne fosse..........ma come dici tu oramai in questo fruire usa e getta ................

B-B-B (ha votato 8 questo disco) alle 14:33 del 10 aprile 2015 ha scritto:

Cavolo, ho ascoltato Smash A SIngle... Se anche il resto del disco è a quei livelli, è una figata assurda!