Napalm Death
Apex Predator / Easy Meat
Abbiamo, forse, travasato Eraclito. Un mare di informazioni è nessuna informazione. Ci sfuggirebbe il motore della vita, la sua stessa essenza, se arrivassimo a non poter più contare sulle propaggini variamente virtuali che da leale ausilio nella rincorsa allevoluzione e alla complessità della contemporaneità si stanno sostituendo al nostro cervello, ai nostri sensi. Le sinapsi, e non solo la carne di cronenberghiana memoria, stanno diventando radicalmente nuove. Così che a contare è il colpo docchio, la belligeranza dellimpressione: non più il ricordo (si guardi sempre avanti), non più lapprofondimento (chi ha tempo non perda tempo). Bombardati a tutta spiana da una portaerei che sputa titoli e sunti bradburiani anziché ordigni, ci rifiutiamo anche solo di memorizzare quanto succede: va subito lasciato il posto a quanto si sta per annunciare. Lanalogia presta il fianco: un mare di musica è nessuna musica. Importante è piluccare ovunque senza soffermarsi da nessuna parte, volteggiare incessantemente da un capo allaltro della propria libreria e millantare il possesso, non linteriorizzazione: così che diecimila dischi sono forse venti, o trenta, diecimila ore sono a malapena un millesimo. Tutti scrivono di tutto senza timore di smentita: non cè tempo, non cè spazio.
Un disco come Apex Predator / Easy Meat, il sedicesimo lungo per i Napalm Death, si erge fiero della sua cocciuta antimodernità a paladino dei tempi perduti. Come per tutti i capitoli da The Code Is Red Long Live The Code in poi, diviene impossibile abbracciare in un solo ascolto le sfaccettature di un suono che, immutabile nelle sue fondamenta, si arricchisce e si espande progressivamente nelle propaggini, inglobando una quantità di sottostilemi ardua a rintracciarsi se non attentamente, pazientemente. Chi vi dirà che i quattro di Birmingham hanno scritto il solito album, insomma, mente: spudoratamente, pervicacemente. Il superpredatore che si nutre di carne a buon mercato, peraltro, rimanda a sovrastrutture politiche ben più sottili: ed ecco che si ritorna al discorso di cui sopra. Il richiamo metaforico porta direttamente al disastro del 24 aprile 2013 quando, a Savar (un distretto di Dacca, capitale del Bangladesh), collassarono i primi piani di un mostruoso edificio commerciale ad otto piani, il Rana Plaza: una tragedia annunciata (già da giorni ledificio mostrava segni di instabilità) in cui perirono 1129 operai delle fabbriche tessili ivi abusivamente ubicate. Ben difficile da richiamare alla memoria per chi, sullonda della smania del giornalismo occidentale, seguiva le bombe alla maratona di Boston, assisteva alla seconda rielezione di Giorgio Napolitano e vedeva insediarsi, a capo del precario governo italiano, la meteora Enrico Letta. Eppure quello del Rana Plaza rimane, ad oggi, il più grave incidente sul lavoro della storia moderna.
Ci volevano i cavalieri del grindcore moderno a ricoprire il ruolo, di denuncia, che un tempo fu (e oggi non è più) dei songwriter, sempre più chiusi nel loro egocentrico e stereotipato vittimismo. Non in molti, oggi, si potrebbero permettere un disco come Apex Predator / Easy Meat, che neppure per un istante molla il freno ed arretra di un passo. A ben vedere, sono le stesse parole che spendemmo allepoca per il solidissimo Utilitarian e, in misura minore, per Time Waits For No Slave: con una sostanziale differenza. La varietà del full length precedente viene qui immolata in favore di uno stordente, potentissimo muro di suono, al solito estremamente malleabile nelle sue emanazioni (pare di ascoltare i Converge di When Forever Comes Crashing in Cesspits, le chitarre acide e fuori controllo di Ben Weinman in Stubborn Stains: è forse il lavoro più tecnico mai scritto dai Napalm Death), ma non scevro da una certa preferenza accordata a soluzioni storiche (Metaphorically Screw You è il sunto perfetto: politica, ironia, riffaggio, velocità death-grind a rotta di collo) e, a tratti, un po fruste (lhardcore come lo si suonava ventanni fa in Stunt Your Growth, il classico D-beat, con staffetta tra blast e basso, in Timeless Flogging).
A parte, poi, i numerosi episodi gratificanti, che testimoniano di un gruppo in gran spolvero, per lunghi tratti ancora inimitabile. Fatta eccezione per lapertura, roboante ed apocalittica, della title-track (come dei Neurosis neozelandesi in rewind, vagamente fuori luogo), colpiscono duro gli accartocciati lamenti post-core di Slum Landlord, il thrash-core miasmatico del singolo How The Years Condemn, una frenetica Hierarchies che scivola verso un inusitato ritornello melodico (paragone istantaneo con Fall On Their Swords) e, naturalmente, i cinque minuti abbondanti di Adversarial - Copulating Snakes, devastante math-core che devia verso una cupa conclusione sludge. Tutto magnificamente orchestrato, con la ciliegina sulla torta di Smash A Single Digit, il brano più abrasivo e devastante regalatoci dai Napalm Death negli ultimi dieci anni.
Avremo anche perso la memoria del Ventesimo Secolo: ma gloria a dischi del genere, coi quali possiamo sperare di recuperarla almeno in parte.
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