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R Recensione

6,5/10

Blackwood

As The World Rots Away

Da un famoso passo delle Vite dei Filosofi di Diogene Laerzio si ricava la notizia secondo cui Epimenide di Creta, uno dei sette savi dell’antichità, passò cinquantasette anni della sua vita a dormire in una caverna appartata, alla ricerca di una pecora sfuggita al gregge di suo padre. Destatosi, ebbe a capire l’eccezionalità della propria esperienza e decise di consacrare agli dei il prosieguo della sua esistenza. Non c’è bisogno di scavare nel nostro Es per comprendere la pregnanza simbolica del racconto, una piccola parabola pagana incentrata sulla palingenesi e sulla purificazione come metodi assodati per arrivare all’essenza invisibile del mondo sensibile. Ora, supponiamo che le orecchie di Epimenide, nel suo lungo oblio, captassero suoni e frequenze dell’altrove: sarebbero state armonie delle sfere celesti o, più probabilmente, rantoli di corpi in disfacimento, gemiti di anime in pena, echi e sibili di un aldilà mefistofelico? Cinquantasette anni di meditazione, d’accordo: ma fu conoscenza attraverso l’inconscio o attraverso la sofferenza?

As The World Rots Away” apre, legittimamente, la discussione. Messaggio forwardato, forte e chiaro, a chi avesse da sempre sognato una versione ultraminimale ed inguaribilmente impermeabile alle variazioni degli EyeHateGod: a chi si fosse appassionato al percorso artistico degli Scorn; a chi, infine, amasse altre tipologie di spelonche, come le vasche ricolme di liquidi torbidi che, in oscuri scantinati, generano mostri della ragione e dello spaziotempo. Si obietterà che un musicista del calibro di Eraldo Bernocchi non aveva bisogno di sdoppiarsi, in versione quasi-solista (Jacopo Pierazzuoli, già in MoRkObOt, OssO e Obake, fornisce la controparte ritmica nelle sporadiche esibizioni dal vivo), con il progetto Blackwood, un po’ pomposamente definito “the place where all childhood dreams end, devoured by those who fail to understand the wishes of a brighter future” (potrebbe sembrare la tagline di richiamo di un nuovo Helvete…). Chi scrive non si trova d’accordo per una semplice, fondamentale ragione: aldilà delle sterminate sperimentazioni sul canovaccio doom-dub, che hanno da sempre monopolizzato la ricerca di Bernocchi e che da qualche anno si sono fatte ancora più prominenti, le atmosfere del tutto tetre, malsane, devianti di Blackwood emergono con una tangibilità e una definitezza finalmente esibite in prima linea, non subordinate ad un disegno generale di complessità superiore (il lavorio progressivo di Metallic Taste Of Blood, il fiume in piena di Obake, le cariche ottundenti di OssO, i rituali industriali di Sigillum S).

Per essere scheletrico e minimale, “As The World Rots Away” lo è fin troppo – il che, forse, ne inficia la godibilità sul lungo termine. Ciò non significa che alla semplicità delle strutture si accompagni un depauperamento di significato: piuttosto il contrario. Quota e materialità sono parametri fondamentali per il processo evolutivo interno di Blackwood: appaiono contestualmente, crescono parallelamente, si intrecciano in un crescendo di vorticosità e, quando sembra che tutto sia stato predisposto per l’esplosione finale, si dissolvono. “Breaking God’s Spine” sembra la versione laswelliana dei Nibiru: chitarre truculente e ribassatissime, marziali beat elettronici, marcescenti sample inoculati negli spazi dell’ordito. “Santissima Muerte” diminuisce ulteriormente i bpm (con una distorsione granulosa, squadrata ad arrivare quasi in anticipo sugli stessi riff, elementari ma efficaci), aumentando al contempo la volumetria della pur discreta ritmica. Superati i miasmi sulfurei di “Sodom” si coccia contro “Purtridarium”: la migliore rivisitazione dei Godflesh di cui abbia memoria negli ultimi anni, il brano in cui le escrescenze ambientali sembrano materializzarsi in un abbozzo di vera band. I poderosi bassi di “Vulture” (a creare un landscape industriale di desolata immobilità, fra i più fascinosi passaggi del disco) sembrano confermare la tendenza: in chiusura, tuttavia, la stratificata meditazione dark di “Unrecoverable Mistakes” riconduce il discorso alle sue fonti originarie.

La spinta creativa di Bernocchi, ai limiti dell’ipertrofia, trova nuova linfa anche in questo 2016, piuttosto caldo e serrato per numero e qualità delle uscite: oltre a Blackwood, rilasciato lo scorso gennaio, e all’“In Praise Of Shadows” di aprile (che corona una collaborazione di sette anni con con Manabu Hiramoto degli Shinkiro), è stato annunciato per settembre il debutto del supergruppo Supervoid (con i soliti Pierazzuoli e Xabier Iriondo a corredo), mentre ad ottobre verrà distribuito un progetto a quattro mani col chitarrista indiano Prakash Sontakke e, dulcis in fundo, a novembre vedrà la luce il third act degli Obake. Mettetevi comodi: ne sentiremo sicuramente delle belle.

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