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R Recensione

5/10

Bohren & Der Club Of Gore

Beileid

Repentinamente, senza preavviso, ho subito la ferocia di due notti insonni. A breve distanza l’una dall’altra, nella stessa settimana, una manciata di giorni fa. Non occorre scendere in particolari, per descrivere quello scorrere inesorabile di minuti e secondi ed istanti tutti uguali tra di loro, tutti spiacevoli allo stesso modo, che fanno sembrare il proprio cubicolo l’asfissiante cavità ricurva di un altoforno, e spingono ad invocare silenziosamente – ma con metodica veemenza – l’arrivo del mattino. Vivendo in spazi stretti e condivisi non ho ancora potuto testarne l’efficacia, ma panacea per molti è l’ascolto di musica adatta al contesto, colonna sonora delle menti affaticate e della necessità di addormentarsi, nell’impossibilità di farlo. Personalmente, non riuscirei mai a farmi cullare da suoni paciosi ed ambientali che, anzi, finirebbero per irritarmi ancora di più. Sceglierei, con gusto random, un sax dei Morphine, o le slide blues del mai troppo compianto Jeff Healey, oppure ancora l’estro distorto di Barrett, per fare i primi nomi del catalogo.

Beileid”, come tutti i termini tedeschi, non trova un perfetto corrispettivo in italiano, lingua sfaccettata e passionale, ma priva di quella ragnatela di sentimenti ombrosi che, di fatto, costituisce l’essenza del romanticismo germanico. A volerci avvicinare il più possibile ad una traduzione fedele, si potrebbe optare per “condoglianza”. Titolo che scelga il gruppo, gruppo che scelga il titolo, l’assonanza è concorde. Dietro Bohren & Der Club Of Gore si nasconde un quartetto per batteria, sax, piano, mellotron e basso di Nordrhein-Westfalen, attivo sin dal 1992 e arrivato, con il disco in questione, alla settima prova studio. Se ancora non vi siete stancati di trovare strambi ibridi in giro per il mondo, e siete sempre alla ricerca di nuove sonorità, imbattervi tardivamente nella formazione teutonica potrebbe rappresentare – a seconda delle sensibilità – il vostro regalo di questo natale.

Tre lunghi brani, zero sussulti. L’encefalogramma rimane così, piatto e anestetizzato, per tutto il tempo dell’ascolto. Non una novità per chi già aveva approcciato la materia, in tempi e modalità differenti. “Zombies Never Die (Blues)” sono i Thergothon privi di distorsioni e con una romantica ancia al posto del growl. Il passo è funereo, le nebbie fittissime, il sassofono di Christoph Clöser dilata a dismisura spazi in cui la ritmica si manifesta, quasi esclusivamente, attraverso colpi e schianti in lontananza, riverberati ed ovattati. Mai il sentimento noir aveva assunto tale fascino, tale corporeità. “Catch My Heart” mette a disposizione dell’ospite vocale Mike Patton uno struggente sostrato di romanticismo tinto seppia, dagherrotipo solcato da crepe sepolcrali e assopito nelle anse del vibrafono, dove il patron della Ipecac carica di ulteriore pathos una performance giocata sull’utilizzo di un’amplissima gamma di timbri, stilisticamente vicina a Scott Walker e formalmente prospiciente ad un Antony sotto narcotici: l’ulteriore dimostrazione di quanto l’(ex?) leader dei Faith No More non sia solo punte acuminate ed istrionismi di dubbio spessore. La title-track, infine, stringe un pugno di note in un abbraccio mortuario, inghiottendole lentamente in una danza macabra che si dipana, con mesta continuità ambientale, per quasi quindici minuti.

Doom jazz, funeral jazz, jazz-tempo, ambient jazz, atmospheric drone jazz… quante etichette multiformi per un assunto che, nel corso degli anni, è rimasto sempre uguale a sé stesso, affascinante a spizzichi ed estenuante in dosi maggiori. Quando si tirano in ballo i Bohren & Der Club Of Gore, novanta volte su cento è per inserirli nel contesto “soundtrack per le notti vigili”. Sono perfettamente d’accordo, ma in un senso ben diverso da quello che si potrebbe immaginare: come conciliano loro il sonno, nessuno. Anzi, per la gioia dei più drastici: un lusso estremamente elegante per annoiarsi.

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