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R Recensione

5,5/10

Electric Wizard

Time To Die

A cogliere il soggetto in procinto di spiccare il balzo, forse decisivo per l’intera sua esistenza, ecco spuntare il trappolone dell’autocitazione, il nemico in casa propria, l’armata da cui non ci si può difendere. Con “Witchcult Today”, A.D. 2007, gli Electric Wizard di Jus Oborn avevano intrapreso un percorso di entusiasmante ricostruzione della canzone doom a partire dalle macerie sibilanti di “Dopethrone”, lo stordimento maligno senza contemplazione: una formula che, sia pure con risultati tutt’altro che strabilianti, aveva permesso progressivi alleggerimenti strutturali, sino a circostanziare i Nuggets lovecraftiani di “Black Masses” (2010). Se, a ragione, possiamo considerare quel disco “il” capitolo sperimentale per eccellenza del mago elettrico – turning point tale da far invocare una riscrittura, in direzione fuzz-garagistica, di tutto il precedente repertorio del quartetto –, è vero anche che troppo pronunciata, e dunque intrinsecamente problematica, appariva la precarietà di quelle basi. Invischiati in un limbo di indistinta medietà (per cui, in un senso o nell’altro, serviva un atto di fede, e di forza, per riconfermare la propria identità), gli Electric Wizard scelgono di non scegliere. Né avanti, né indietro: “Time To Die” rimane fermo dov’è. E fermo dov’è agonizza, stroncato dai deleteri side effects di una cauta retromarcia.

La malvagia aura di perdizione mefistofelica che aleggia sull’ottavo full length dei doomster del Dorset non ha nulla a che fare con la sottile patina di autoironia che – mutatis mutandis – aveva contagiato nell’ultimo decennio la band, in un richiamo incessante (e beneaugurante) al metalinguaggio. Ossia: nell’impiego dei samples, nell’oculata selezione dell’iconografia, persino nell’immagine pubblica, il gruppo aveva imparato a sfruttare le ridondanze teatrali della propria comunicazione per parodiarsi, come chi si accinge a descrivere sacrifici umani dopo aver chiesto delucidazioni sulle previsioni del tempo. “Time To Die” vuole, invece, sfoderare canzoni con la spietatezza d’intenti degli esordi (non è un probabilmente un caso che il batterista della formazione originaria, Mark Greening, sia tornato all’ovile per queste sessioni di registrazione): errore primo e primario. Il compromesso a tutti i costi taglieggia le potenzialità musicali e ne schiaccia inutilmente lo sviluppo: così che – destino orribile – un disco-monolite (ben sessantacinque minuti: troppi) nato per ferire non riesce a strappare nemmeno una scalfittura.

I riff di “Black Masses” vengono enfiati a dismisura, scaraventati in una grandeur orrorifica da pochi spiccioli e messi in bolla con il metro dello stereotipo doom. Ne nasce una collezione di pezzi che, curiosamente, ricorda l’alternarsi delle micro sequenze, aggressive ma del tutto inconcludenti, di “Death Magnetic”: gli ultraquarantenni che falsificano, su carta ma non nello spirito, la propria carta d’identità. Non una grande idea. Sono tre i brani che, inizialmente, inducono a credere nel restyling. “Incense For The Damned” srotola marziali paratie funebri (particolarmente imponente, nel post-Ramesses, il drumming di Greening) al ritmo di elementari bicordi sabbathiani appaiati per salto di tonalità ed esaltati sulle frequenze medio-basse: il grandangolo cinematico si fa però meno convincente col passare dei minuti, sino a sfumare in una pallida decalcomania. “I Am Nothing” esplode in una frase catacombale nei toni, letteralmente elefantiaca nelle dimensioni (il raddoppio di chitarra e l’ipersaturazione del basso, a cadenze così nette, fa veramente male): al giro di boa dei trecento secondi, poi, la canzone si perde in un brodino allungato di echi, feedback e morsi anfetaminici. Coerentemente, “SadioWitch” allarga il solco tracciato dalla vulgata di “Black Masses”: la durata contenuta lascia soppesare la particolare granulosità delle sei corde, il cui unico difetto è di incaponirsi su giri scritti con lo stampino.

La lugubre atmosfera dell’organetto riecheggia negli impasti straziati di sample e muri di suono che, quasi come in un concept, si rincorrono lungo il disco e ne allargano le possibilità prospettiche (“Destroy Those Who Love God”, “Saturn Dethroned”, quest’ultima dall’allure quasi dark ambient). Ma non sono i richiami a fare la compattezza. Le idee, ahinoi, cominciano a latitare: l’evidenza è sotto le orecchie di chi vuole ascoltare. La title-track è una “Dunwich” in tono minore, la sgraziata “We Love The Dead” ricrea una grottesca verginità iommiana per i Misfits di un millennio imprecisato, e persino la cavernosa ruvidità di “Funeral Of Your Mind” sembra il rifacimento manieristico – con minimali ritocchi in wah – di “Funeralopolis”.

È accaduto quello a cui ci saremmo augurati di non dover mai assistere: lo scettro è passato di mano.

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