Electric Wizard
Time To Die
A cogliere il soggetto in procinto di spiccare il balzo, forse decisivo per lintera sua esistenza, ecco spuntare il trappolone dellautocitazione, il nemico in casa propria, larmata da cui non ci si può difendere. Con Witchcult Today, A.D. 2007, gli Electric Wizard di Jus Oborn avevano intrapreso un percorso di entusiasmante ricostruzione della canzone doom a partire dalle macerie sibilanti di Dopethrone, lo stordimento maligno senza contemplazione: una formula che, sia pure con risultati tuttaltro che strabilianti, aveva permesso progressivi alleggerimenti strutturali, sino a circostanziare i Nuggets lovecraftiani di Black Masses (2010). Se, a ragione, possiamo considerare quel disco il capitolo sperimentale per eccellenza del mago elettrico turning point tale da far invocare una riscrittura, in direzione fuzz-garagistica, di tutto il precedente repertorio del quartetto , è vero anche che troppo pronunciata, e dunque intrinsecamente problematica, appariva la precarietà di quelle basi. Invischiati in un limbo di indistinta medietà (per cui, in un senso o nellaltro, serviva un atto di fede, e di forza, per riconfermare la propria identità), gli Electric Wizard scelgono di non scegliere. Né avanti, né indietro: Time To Die rimane fermo dovè. E fermo dovè agonizza, stroncato dai deleteri side effects di una cauta retromarcia.
La malvagia aura di perdizione mefistofelica che aleggia sullottavo full length dei doomster del Dorset non ha nulla a che fare con la sottile patina di autoironia che mutatis mutandis aveva contagiato nellultimo decennio la band, in un richiamo incessante (e beneaugurante) al metalinguaggio. Ossia: nellimpiego dei samples, nelloculata selezione delliconografia, persino nellimmagine pubblica, il gruppo aveva imparato a sfruttare le ridondanze teatrali della propria comunicazione per parodiarsi, come chi si accinge a descrivere sacrifici umani dopo aver chiesto delucidazioni sulle previsioni del tempo. Time To Die vuole, invece, sfoderare canzoni con la spietatezza dintenti degli esordi (non è un probabilmente un caso che il batterista della formazione originaria, Mark Greening, sia tornato allovile per queste sessioni di registrazione): errore primo e primario. Il compromesso a tutti i costi taglieggia le potenzialità musicali e ne schiaccia inutilmente lo sviluppo: così che destino orribile un disco-monolite (ben sessantacinque minuti: troppi) nato per ferire non riesce a strappare nemmeno una scalfittura.
I riff di Black Masses vengono enfiati a dismisura, scaraventati in una grandeur orrorifica da pochi spiccioli e messi in bolla con il metro dello stereotipo doom. Ne nasce una collezione di pezzi che, curiosamente, ricorda lalternarsi delle micro sequenze, aggressive ma del tutto inconcludenti, di Death Magnetic: gli ultraquarantenni che falsificano, su carta ma non nello spirito, la propria carta didentità. Non una grande idea. Sono tre i brani che, inizialmente, inducono a credere nel restyling. Incense For The Damned srotola marziali paratie funebri (particolarmente imponente, nel post-Ramesses, il drumming di Greening) al ritmo di elementari bicordi sabbathiani appaiati per salto di tonalità ed esaltati sulle frequenze medio-basse: il grandangolo cinematico si fa però meno convincente col passare dei minuti, sino a sfumare in una pallida decalcomania. I Am Nothing esplode in una frase catacombale nei toni, letteralmente elefantiaca nelle dimensioni (il raddoppio di chitarra e lipersaturazione del basso, a cadenze così nette, fa veramente male): al giro di boa dei trecento secondi, poi, la canzone si perde in un brodino allungato di echi, feedback e morsi anfetaminici. Coerentemente, SadioWitch allarga il solco tracciato dalla vulgata di Black Masses: la durata contenuta lascia soppesare la particolare granulosità delle sei corde, il cui unico difetto è di incaponirsi su giri scritti con lo stampino.
La lugubre atmosfera dellorganetto riecheggia negli impasti straziati di sample e muri di suono che, quasi come in un concept, si rincorrono lungo il disco e ne allargano le possibilità prospettiche (Destroy Those Who Love God, Saturn Dethroned, questultima dallallure quasi dark ambient). Ma non sono i richiami a fare la compattezza. Le idee, ahinoi, cominciano a latitare: levidenza è sotto le orecchie di chi vuole ascoltare. La title-track è una Dunwich in tono minore, la sgraziata We Love The Dead ricrea una grottesca verginità iommiana per i Misfits di un millennio imprecisato, e persino la cavernosa ruvidità di Funeral Of Your Mind sembra il rifacimento manieristico con minimali ritocchi in wah di Funeralopolis.
È accaduto quello a cui ci saremmo augurati di non dover mai assistere: lo scettro è passato di mano.
Tweet