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R Recensione

6,5/10

Free Nelson Mandoomjazz

Awakening Of A Capital

L’aspetto di cui maggiormente ci rallegriamo, dopo molti ascolti di “Awakening Of A Capital”, è l’enorme passo in avanti fatto registrare dal songwriting dei Free Nelson Mandoomjazz, strambo terzetto scozzese basso-batteria-sax contralto sotto RareNoise il cui doppio EP “The Shape Of Doomjazz To Come / Saxophone Gigantus”  – appena un anno fa – non aveva impressionato né per originalità né, tantomeno, per longevità. Azzardiamo un’ipotesi: è probabile che lavorare sul formato lungo, anziché su scorci temporali ristretti e minimali, doni nuovi respiri e prospettive ad una scrittura alquanto particolare (ottone ibrido tra divagazione free jazz e fraseggio armonico, sezione ritmica come cartina al tornasole degli umori melodici di ogni singolo pezzo) e certamente non inquadrabile secondo i taciti capisaldi di ciò che s’intende essere jazzcore.

A rinvigorire il nerbo del gruppo, l’assoluta centralità del basso di Colin Stewart, già qualcosa in più che co-protagonista nei precedenti extended play ed ora, ad un tempo, motore e cervello architettonico, in grado di far sembrare gli squittii e i pigolii di Rebecca Sneddon (qui, comunque, nel pieno controllo del proprio strumento, molto più che in passato) orpelli ornamentali, quando non addirittura semplici linee di rinforzo. Prova ne sia che, nella tenue narrazione sludge di “The Stars Unseen”, il sax compaia, come mero supporto, solo da 1:19 in avanti. Bisogna aspettare pazientemente che il brano prenda corpo (il fuzz entra in gioco a 4:14) per sentire una versione no wave dei Black Sabbath sotto calmanti e senza riffmaker, con la Sneddon alunna degli esercizi respiratori di “For Alto” e degli esperimenti sul suono di “The Classic Guide To Strategy”. In “The Land Of Heat And Greed” è il tocco secco di Paul Archibald a scarnificare un pezzo grunge dal matematico interplay bandistico (Albert Ayler e i Pentagram?). Su “The Pillars Of Dagon”, l’idea centrale è quella di impostare un ritornello trinato d’archi come punto di partenza per un ribaltamento dei ruoli (sax minimale su tre note coltraniane, basso e batteria in colluttazione impro jazz): è forse l’episodio migliore, non bissato né da “Erich Zann” (che dalla sua ha solo la poderosità del break centrale), né dai contrappunti funk-aside invero un po’ tediosi di “Slay The Light”.

C’è ancora parecchio lavoro da fare, insomma, ma la diversificazione di contenuto e strategia è di per sé un ottimo biglietto da visita, e la conclusiva, narcolettica “Beneath The Sea” (i Bohren & Der Club Of Gore con uno sconfinato set di percussioni e un basso sottocutaneo a propria disposizione) una chiarissima dichiarazione d’intenti.

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