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R Recensione

5,5/10

Free Nelson Mandoomjazz

The Shape Of Doomjazz To Come / Saxophone Giganticus

La prima citazione, via variazione su tema già autoritariamente operata dai magnifici Refused, strizza l’occhio ad Ornette Coleman. Ma Rebecca Sneddon, pur nel suo essere gentil donzella, nasconde comunque le sue fattezze sotto il cappuccio di una lisa felpa da disadattati: più che Robin Hood, Devil Hood. Difatti, puntuale, arriva anche la seconda citazione, inevitabile ed imprescindibile per chi corre il rischio di intitolare un proprio extended playThe Shape Of Doomjazz To Come”: Dio perdona, Ozzy no e trac!, un’autostrada di senso criptato si apre sulla cover dell’anthem “Black Sabbath”. Il triangolo mistico si completa con la terza citazione, l’elogio a perdere della potenza luciferina di tal ottone, così da far impallidire il “Saxophone Colossus” di Sonny Rollins in un “Saxophone Giganticus” avvolto nell’ombra e nel fumo, moloch elettrico e temibile. Ottima preparazione e buon senso, tutto inglese, dell’umorismo.

Un (mica tanto) sottile senso di dejà senti è l’equivoco madre sulle cui basi poggiano, fieri, i Free Nelson Mandoomjazz. Questo per preparare all’ascolto. Per preparare alla forma, invece, provate a visualizzare con l’emisfero destro la formazione tipo degli Zu. Con quello sinistro, stemperate i crepitii metallici del basso di Massimo Pupillo con le tempestose nuvole di fuzz che ingabbiano le progressioni melodiche di quello di Colin Stewart, e sostituite al baritono di Luca Mai il più morbido – e lancinante – contralto della Sneddon. Il passo rock di Paul Archibald è, peraltro, lontanissimo dalle contorsioni tentacolari di Jacopo Battaglia (e, in proiezione, di Gabe Serbian): questo, non essenziale, per corroborare l’ormai arcinota tesi secondo cui jazzcore è tutto e niente. Il gioco è pressoché fatto. Loro, as usual, ci vanno giù pesante e chiamano tutto ciò doom jazz, cifra stilistica che ha ben altri colori e fattezze nel linguaggio comune (?) degli appassionati, Bohren & Der Club Of Gore in primis. Delle sottigliezze e del loro consapevole annullamento: passeremo sopra ai dettagli per concentrarci sulla sostanza.

In attesa di un full length schedulato per il tardo 2014, Rare Noise ristampa – in pacchetto unico – i primi due EP del trio britannico. Nel primo, “The Shape Of Doomjazz To Come”, la Sneddon formula un efficace contrappunto ayleriano – armonia piana e festosa, astratte convulsioni in libertà a seguire – ad una buona frase di Stewart, intensamente debitrice di "Iron Man" (“Where My Soul Can Be Free”): “Into The Sky” assume quasi un cipiglio grunge, soffice terreno costruito ad hoc per inscenare la manfrina dei pigolii e degli strepiti del contralto, salvo poi rallentare considerevolmente l’andatura e spegnersi faticosamente in una palude sludge; “The Masque Of The Red Death” è jazz-noir rivisitato tra spasmi free e frequenze impastate. Più definito nella struttura, gelido negli intenti quanto si agita sotto i neon di “Saxophone Giganticus”: “K54” ricorda i Gutbucket frizionati con massicce dosi di Pentagram, “No One Fucking Posts To The UAE” scivola a bpm minimi verso l’orlo di un baratro dark-noise, la cover dei Sabbath assorbe un micidiale tiro hardcore (con la Sneddon lanciata verso una pantomima, discreta, del Zorn versione Painkiller).

Ciò detto, la ripetitività di schemi e situazioni impedisce il reale godimento di una musica che, sulla carta tutta impatto e cattiveria, riesce al contrario piuttosto monotona e, alla lunga, involuta. Per uscire dall’anonimato non serviranno le sole citazioni: servirà, piuttosto, una prova di reale personalità. Ci risentiremo presto.

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