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R Recensione

6/10

Mantar

Death By Burning

C’è la cafoneria del biker e la sicumera dell’esordiente, l’unidirezionalità del punk e la strutturazione dello stoner, la sostanziale reazione sonora e un multiculturalismo di facciata che – a conti fatti – non lascia traccia. Dei Mantar nessuno ha ancora sentito parlare per un semplice motivo: sino al tardo 2012 ancora non esistevano, se non come idea, che lentamente è riemersa dall’underground sino a conquistarsi una fetta di importantissima visibilità, una manciata di mesi dopo la pubblicazione dell’esordio “Death By Burning”, alla prima serata della sedicesima edizione del Roadburn Festival. Mica male, specie se si ha dimestichezza con l’aria che tira nel sottosuolo teutonico. Di strettamente eccezionale, nel duo turco-tedesco, non v’è in realtà nulla, se non la semplicità a tratti autistica dei brani e il tiro stratosferico che garantiscono le sole chitarra e batteria, registrate in rigorosa presa diretta. Così i Mantar: genuinamente diretti, ingenui se si vuole (la cover esibisce credenziali di spacconeria metal non petitae), ma parimenti sinceri.

Lontana dall’essere disprezzabile è la manodopera chitarristica di Hanno, un pout pourri stilistico che, prendendo da tutti un po’, in the end riesce anche a sbandierare un’inaffondabile coerenza interna (da ascoltare attentamente “Swinging The Eclipse”, assalto death’n’roll che media i Motörhead delle cavalcate con quelli massicci e cripto-doom di lavori come “Orgasmatron”). Erinc, dietro alle pelli, riempie le aporie ritmiche con il proprio tocco sgraziato ed esplosivo, ma quadrato e sicuramente efficace. La deviazione, comune, si concretizza allorquando “March Of The Crows”, con putrescente solennità Turbonegro, dipinge un fosco quadro post-core: un gradito, forse necessario slittamento, che insinua la sei corde parlante di “Astral Kannibal” fra le sciabolate neurosisiane di “White Nights” (un medley di loro stessi? In un certo senso…). Si potrebbe obiettare che non è necessario far compiere alla lancetta tre quarti di giro per giungere al fulcro del discorso, se il resto del canovaccio si discosta impercettibilmente dal granitico e ringhioso stoner di “Spit” posto in apertura: e c’è del vero nell’obiezione, al palesarsi del recital cupo ed ansiogeno di “The Berserker’s Path” (biascica l’ultimate fighter americano Kent Hensley), o al grattugiarsi del groove di “Into The Golden Abyss”.

Ma, almeno una tantum, il naufragar ci è dolce in questo mare.

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