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R Recensione

7/10

Torche

Restarter

Vatti a fidare, tu, dei Torche, quattro ragazzotti di Miami che indovinano un esordio fenomenale (2005, un’altra vita) inabissandosi poi, negli anni, nel crinale di una biografia sempre più stentata e banale. Vatti a fidare dell’aurea mediocritas e di chi, per festeggiare i primi dieci anni di attività discografica, appioppa alla propria quinta prova in studio un titolo che è insieme promessa paradisiaca, fardello ed ammissione di colpevolezza: “Restarter”. Vatti a fidare, poi, delle dicotomie. C’è la traccia dello zolfo ed il piedino dell’angelo, il bosco fatato e la lucida serpe nera che scivola fuori da una finestra, in un platter baciato dall’ispirazione che arriva ben fuori tempo massimo, quando non ci si aspettava più nulla se non sussistenza e galleggiamento.

Se tante incertezze, passi falsi e mezzi sorrisi sono serviti alla costruzione di questi dieci pezzi, benvenuta fallacia. Accantonate le pretese tecniche e le deviazioni eterodosse di “Harmonicraft” (per non menzionare oltre la primigenia, oscura psichedelia del debutto, persasi in significativa percentuale già nel successivo “Meanderthal”), i Torche ripartono dai due elementi antitetici su cui hanno poggiato – con fortune alterne – le basi del proprio songwriting: le pesanti distorsioni chitarristiche di Jawbox e Melvins, da un lato, e certe amarognole lascivie armoniche inequivocabilmente pop, dall’altro. Entrambi gli aspetti vengono esacerbati nelle loro premesse e lasciati liberi di folleggiare nel risultato complessivo: Steve Brooks e Andrew Elstner macinano riff dalla costituzione essenziale e dal volume pachidermico (fa impressione l’avanzare compresso e testardo di “Barrier Hammer”), colate di acciaio fuso i cui vapori miasmatici sono mitigati da stranianti hook orecchiabili che, a differenza del passato, suonano come una deformazione non del classico arena rock, ma dell’indie slacker degli anni ’90 (“Blasted” sono i Dinosaur Jr. divorati dai bassi).

Sembra l’ennesimo azzardo. È, invece, una schiacciante vittoria, su tutti i fronti. Brani come “Minions” (l’avanzare di un panzer catatonico infilzato da filler sardonicamente Sebadoh) hanno fatto coniare, alla benevola critica d’oltreoceano, l’abominevole etichetta “doom pop”. Non occorre abbracciare il lapalissiano paradosso semantico per rimarcare la validità di “Restarter” che, peraltro, dimostra di preservare una smagliante compattezza d’insieme anche dopo svariati ed approfonditi ascolti. Brillano, in maniera particolare, alcune intuizioni tanto semplici quanto geniali. La litania valvolare di “Annihilation Affair”, ad esempio, si estingue dopo appena due minuti, precipitando (senza più riemergere) in una profonda voragine kraut-noise: la title track anestetizza i Queens Of The Stone Age di “R” in una lunghissima coda di reiterazioni chitarristiche, phaser e derive ambientali; le melodia di “No Servants” si appoggia ad un sinuoso basso post-core, contrastato sanguinosamente da lancinanti feedback di chitarra; la pasta delle sei corde di “Believe It”, granulosa ma intellegibile, sembra frutto di un rapporto incestuoso tra Black Sabbath e black metal.

Ancora molto si potrebbe scrivere su un disco che, anche nei suoi episodi più prevedibili (“Bishop In Arms”, la fucilata metallica di “Undone” le cui fila sono tirate dal basso di Jonathan Nuñez) non scopre mai il fianco ai punti deboli segnalati, negli anni passati, dai detrattori, ed ergendosi pertanto ad unico, reale competitor del summenzionato esordio. Vatti a fidare, tu, dei pregiudizi.

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