V Video

R Recensione

6,5/10

Ahab

The Boats Of The Glen Carrig

Quella copertina… quei colori… quel respiro. Impossibile dare adito a fraintendimenti: gli Ahab si sono innamorati del prog. E che prog!, aggiungiamo noi. Nessuna contorsione, nessun cono d’ombra, nessuno spigolo. Forme tondeggianti ed inquietanti – un parametro bilancia l’altro –, mistero e tensione pittorica. Inevitabile, per chi sospira da sempre sulle profondità sublimi dell’oceano, elemento naturale che costituisce ragion d’essere ancor prima che oggetto d’interesse, sostituire Géricault con Sebastian Jerke, l’abile mano che sta dietro al fantastico artwork del quarto full lengthThe Boats Of The Glen Carrig” (l’ispirazione, questa volta, viene dal romanzo di William Hodgson). Nel lirismo si nasconde, di soppiatto, il desiderio alla semplificazione, allo sgrossamento dei poli opposti: l’intenzione di pervenire ad un linguaggio meno tough & rough, meno criptico. I germi piantati e coltivati nel fertile terreno del precedente “The Giant” sono cresciuti e hanno contribuito alla mutazione – definitiva? – del peculiarissimo suono Ahab.

In sintesi, per chi segue da molti anni i quattro tedeschi, l’assoluta imprevedibilità di originalissimi ibridi quali i primi “The Call Of The Wretched Sea” (l’urlo selvaggio, abissale, irrazionale della natura) e “The Divinity Of Oceans” (con sprazzi di luce estatica tra le densissime tenebre: ad oggi, ancora il loro capolavoro), nei quali era alquanto difficile prevedere un’evoluzione lineare dei brani, si è stemperata in formule schematiche assai meno coraggiose, sul piano strutturale (sommariamente: introduzione strumentale, voce pulita, switch in distorto, riaggancio solistico, conclusione) ma, esteticamente parlando, dalla bellezza indiscutibile – una bellezza malinconica, morente. È questa la transizione sostanziale di una scrittura che è andata via via perdendo gli anfratti funeral doom, schiudendosi ad interpretazioni meno opprimenti: semplificando, dai Thergothon agli Anathema (un andazzo pienamente confermato dalla crepuscolare bonus track, “The Light In The Weed (Mary Madison)”, splendidamente ed interamente cantata in sole clean vocals da un Daniel Droste sempre più post-grunge). La crescita di quest’ultimo, in registri e personalità, è luminosa, sebbene le prove migliori siano, ancora una volta, offerte dal secondo chitarrista Christian Hector (emozionanti le tessiture iniziali di “The Isle”: un omaggio ai Pink Floyd di “Wish You Were Here”, dalla prospettiva cosmica dei maudlin of the Well) e, soprattutto, del batterista Cornelius Althammer, il più malleabile e, pertanto, preziosissimo in ogni contesto (vi sfidiamo a trovare un solo tocco fuori posto, inadeguato).

Confinati in un angolo i colpi da biliardo – la rivoluzione non può durare per sempre – ci si aggrappa, allora, al valore dei brani in sé e di per sé: che, complice una percentuale sostanzialmente maggiore di infiltrazioni death rispetto a “The Giant”, è molto alto. La summenzionata “The Isle” è, nello specifico, un brano quasi perfetto, la sintesi ideale di pathos, impatto metallico e varietà distributiva (al punto che si può anche pensare di perdonare l’assolo conclusivo, smaccatamente Seventies). Funziona assai anche la concisione di “Like Red Foam (The Great Storm)” che, paradossalmente, è il pezzo più complesso e dinamico, nel suo cercare una quadra tra bordate doom, spettri Alice In Chains e raschiamenti scandinavi: e tolgono il fiato i sinistri rallentamenti della composita “To Mourn Job”, che si protende su di un baratro marziale, frenandosi un attimo prima della caduta. Solo una durata eccessivamente impegnativa (un quarto d’ora) impedisce al poema epico di “The Weedmen”, dalla narrazione bustrofedica e tutto sommato spedita, di decollare in simile misura (le progressioni centrali delle chitarre di Droste e Hector, meravigliosamente sostenute dalla fantasia di Althammer, si avvicinano notevolmente a quelle dei Neurosis di “Through Silver In Blood”): “The Thing That Made Search”, doppia cassa a parte, riduce al minimo lo spettro delle variazioni, puntando piuttosto sull’apertura delle armonie (ma il risultato convince a metà).

La spinta innovativa si sta indubbiamente stabilizzando ma, come dimostra al meglio “The Boats Of The Glen Carrig”, anche dischi meno ambiziosi possono ugualmente arrivare al cuore dell’ascoltatore, conquistandolo.

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 4 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
B-B-B 7,5/10
Lelling 7,5/10

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.