V Video

R Recensione

6/10

Ahab

The Giant

Tutto uguale, il funeral doom metal, no? Ma sì, dai, il funeral doom… Venti chitarre accordate sei toni sotto lo standard, rantoli di varia estensione e inintelligibilità che disquisiscono di invereconde nequizie, un riff che è sempre quello e non riesce mai a fare muro di suono, una batteria che segna cinque colpi al minuto, per dieci minuti…

C’è la gente che ci crede davvero, a quello che fa, e suona convinta, incurante di chi riceverà: e gli ascoltatori sono lasciati liberi di deprimersi, esaltarsi, molto più semplicemente rompersi le palle ed interrompere il gioco a metà, sulla pendenza di un’ardita disquisizione filosofica macinata a due bpm. Tutto molto semplice, in fondo, no? In teoria. Poi c’è la pratica. E chi osa tuffarsi in queste lande sperdute, dimenticate dal Pantheon alla stregua del brutal death evoluto, può venire a conoscenza di segreti (non così segreti, se vogliamo dirla tutta) eccezionali. Gli Ahab, ad esempio. L’unica band tedesca, che io conosca, ad aver coniato un’etichetta tutta propria per il personale, fascinosissimo ibrido – qualcosa come “nautik funeral doom metal” – e, cosa più importante, a non mettersi a ridere nel dirlo ad altri.

Qui finisce la gimmick, pretestuosa, ed inizia la musica. In merito, servirà accennare un attimo, per orientarsi, alla cronologia. Che dice: primo disco nel 2007 (“The Call Of The Wretched Sea”), toni eccezionalmente cupi ed oppressivi, valanghe nerastre di stratificazione sonora disperse nell’immensità dell’oceano padre padrone la cui infinitezza concettuale sogliono cantare; strepitoso bis nel 2009 (“The Divinity Of Oceans”), con La Radeau de la Méduse di Géricault come copertina ed un affievolirsi elegantissimo della pesantezza più propriamente funeral, a vantaggio di aperture melodiche mozzafiato e di un senso di eroica, epica loneliness che il solo, grande genio sembra essere stato sempre in grado di trasmettere.

Chi non ha abbandonato la pagina dopo aver letto della descrizione incoscientemente propugnata dagli Ahab stessi, riguardo al loro stile, si sarà magari potuto chiedere il perché (no, eh?) di quel nautik. Lo pseudonimo non mente. Più che ispirazione romantica senso strictu, la sublimità delle distese d’acqua, le profondità degli abissi, le tregende letterarie cullate tra flutti e tempeste, il mare placido e la tomba schiumante sono vera ossessione del cantante e chitarrista Daniel Droste, che non solo vi costruisce – su proiezioni, ampliamenti esterni del tema principale – strutture da concept, ma vi lega indissolubilmente, un tempo si sarebbe detto a doppia mandata, lo scheletro di alternanza chiaroscurale della parte strettamente musicale. Laddove si esaurisce il compito delle sciabolate monolitiche, di potenza inafferrabile, proprie di certo death/doom catacombale anni ’90, si inseriscono melodie siderali, cristalline, purissime, dove il growl soffoca in spire oniriche e le due chitarre (la seconda è di Christian Hector) costruiscono impianti armonici di strutturazione complessa e raffinata, psichedelia ingigantita da uno speciale utilizzo del riverbero con effetto, inevitabilmente, paesaggistico e rifrangente: la deriva della ferinità al tramonto del sole, in un grandangolo di placido, assoluto nulla cosmico che riprende la seraficità immobilistica degli Yakuza, da un lato, e le idee migliori dei – peraltro ancora imprendibili – maudlin of the Well, dall’altro.

Anche il solo osare dire qualcosa di innovativo, di anarchico, in un sottogenere così pietrificato ed autoreferenziale come il funeral doom, è degno di nota e di merito: specie se, poi, la sfrontatezza dei giovani talenti si coniuga al dovuto rispetto verso una certa tradizione venuta prima di loro. Con “The Giant”, terzo parto ispirato a The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket di Edgar Allan Poe, il quartetto teutonico sceglie consapevolmente di mescolare le carte in tavola, recidendo i legami con il tetro nullismo orrorifico dell’esordio e la sinfonia drammatica del successore, in favore di un impasto più agevole, meno quadrato, ancora più magniloquente nell’impostazione e, sicuramente, più “classico” nel ventaglio delle influenze da cui pescare. Nulla di male a rinnovarsi, ma la scelta – da anni ormai inflazionata nel campo dello stesso metal, innamorato in maniera troppo superficiale e banalizzante delle sospensioni anfetaminiche degli anni ’70 – penalizza inevitabilmente la credibilità e la straordinaria spinta innovativa di un suono il cui marchio di fabbrica, risultante dell’incrocio di varie passioni, si stava comunque affermando alla critica specializzata come unico nel suo genere. Il particolare timbro “nautik”, se possiamo ancora chiamarlo così per comodità, sopravvive nel dolce sciaguattare iniziale di “Further South”, condotta al macello via effettistica ovattata e teatralizzata da micidiali riff scansionati su prospettive definite, estremamente accentate, lateralmente funk (se il funk potesse essere davvero brutalizzato da avvitamenti death e dissonanze letali), ma questo è quanto: altrove, la matrice pulita si transustanzia in classici, sanguigni segmenti su pentatonica di presa immediata, ma di spessore infinitamente più risibile.

Fiumi di rock tradizionalmente derivato, quindi, trovano un posto al sole (?) lungo tutto “The Giant”, fungendo da nuovi trait d’union tra gli abissi doom e le rapsodie armoniche. Detto della minore incisività, e di passaggi fin troppo blandi e stucchevoli – “Fathoms Deep Below” sembra la marcia funebre dei primi Iron Maiden officiata dagli Anathema –, restano comunque parecchi elementi, sparsi qui e lì, che offrono spunti sui quali riscrivere una parabola futura (parleremo del disco, d’ora in avanti, come d’opera di transizione quale, in effetti, appare) non del tutto convincente. In “Aeons Elapse”, Droste è l’attore principale di una moderna pièce drammatica, dove gli sbalzi umorali, e le incarnazioni vocali – splendidi i sussurri che diventano grida, i growl che sfumano in bisbigli – sono la rappresentazione di un’ondivaga, tumultuosa epopea umana (i Pink Floyd di “Echoes” si materializzano a metà brano), progressivamente scarnificata sino a lasciare, sullo sfondo, agonizzante, il solo, fantasioso drumming di Cornelius Althammer, vero uomo in più del quartetto, capace di dotare le canzoni di inediti squarci jazzati, o di colorarle di minutezze formali di straordinario gusto. “Deliverance (Shouting At The Dead)” si avvicina, con sempre maggior sicurezza, al formato canzone, comprimendo in meno di otto minuti una solida impalcatura narrativa hard rock – lievemente speziata doom – dall’anima profondamente grunge: Layne Staley, peraltro, è più di un sospetto al sopraggiungere della splendida title-track, conclusa in un maelstrom sconfinato di chitarre in sovrapposizione.

Se volete approcciare la band per la prima volta, scegliete pure “The Giant” e procedete, poi, a ritroso. La balena bianca, mai del tutto sopita, è pronta nuovamente a riemergere e a colpire, anche nell’ombra, anche nelle infernali scariche di doppia cassa di una comune bonus track (“Time's Like Molten Lead”) che si rivela essere, invero, il brano migliore del lotto.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.