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R Recensione

7/10

Earth

The Bees Made Honey In The Lion's Skull

I principi del drone sono tornati. E ve lo vogliono far sapere: quello del leone è solo un teschio.

Dunque, iniziare il 2008 e dissertare riguardo agli Earth non è certo la cosa più agevole del mondo, considerato il peso artistico della band e la sua proposta musicale decisamente elitaria e sicuramente ostica all’ascolto. Drone doom metal, questo il nome specifico della corrente artistica di cui sopra: ovvero, l’unione degli elementi più lenti e laboriosi del doom classico con gigantesche, amplificate, effettate distorsioni ambient, che hanno il potere di impantanare ulteriormente la velocità d’esecuzione e di pantagruelizzarne ogni più piccolo, sfuocato dettaglio. Il risultato, di conseguenza, si distende su macchinose, spesso monocordi lande sonore, talvolta sporcate anche da disturbi noise, per un minutaggio lungo ed opprimente. Gli altri paladini del genere, i Sunn O)), si prendono la briga di comporre anche dei testi: per gli Earth, questo problema non sussiste, e lasciano piuttosto parlare le loro sei corde, in pezzi interamente strumentali.

Alla non-immediatezza del gruppo e dell’etichetta in questione si deve aggiungere anche una certa vena psichedelica che da un paio di dischi a questa parte ha fatto visita agli Earth: un ulteriore segnale di quanto questa musica possa essere dilatata, prolungata, metodica, quasi mistica, nei suoi vari avviluppamenti.

The Bees Made Honey In The Lion’s Skull” esce pochi mesi dopo “Hibernaculum” (2007), e conferma la solita formula, ormai consolidato marchio di fabbrica della formazione. Sette tracce, divise solo per convenzione, più di cinquanta minuti di indefinita, lisergica, alterata proiezione spaziotemporale.

Le timbriche affrontate non si differenziano sostanzialmente l’una dall’altra, ma hanno la caratteristica comune di dialogare con l’ascoltatore oltre quello che può essere l’intreccio melodico o la stesura ritmica: una sorta di linguaggio parallelo, ultraterreno, criptico, che lascia spazio ai sottintesi e all’immaginazione, che nei caustici solchi riempiti dai feedback striscianti offre tutte le risposte possibili ai vari, ipotetici dubbi, sorti durante l’ascolto.

In “Omens And Portents I: The Driver”, lo sludge viene catturato, sedato, portato in letargo e, lungo la strada che porta al sonno perpetuo, pian piano inaridito ed appesantito. Nasce così un ritratto di una camminata irta e gravosa, ma in qualche modo non faticosa: solo, sempre più monotona e problematica. Nove minuti in cui vengono sostanzialmente usati solamente un paio di accordi. Un monopolio sonoro, una tirannide acustica impressionante.

Compaiono lastre di organetti settantiani in sottofondo, quasi a voler marchiare un tramonto senza fine, nell’ipnotizzante “Miami Morning Coming Down II (Shine)”, un lungo pellegrinaggio per le campagne, verso i grattacieli, che nel finale assume addirittura un aspetto vagamente sleize.

Con una rotazione trasversale, in una non-gravità assoluta, ci si sposta nelle coltri di nubi mediorientali, bagnate da uno specchio di luna. Si va oltre il doom, oltre il drone, oltre la psichedelia: “Hung From The Moon” è percorsa da venature pianistiche che hanno lo scopo unico di perpetuare un senso di ulteriore, decisa estraniazione, da quella che è la realtà circostante.

Non è però tutto rose e fiori, e l’abuso di suddetti canovacci può portare a repentine sensazioni di noia e insonnolimento, specie dove non si rileva un ricambio degli stilemi: ad esempio, la title track scorre bene nei primi minuti, ma in seguito diviene troppo barocca, ridondante ed eccessiva, troppo artefatta (e artificiosa) per poter recidere un minimo contatto sensoriale con l’esterno. Un’occasione sprecata.

Ma, alla fin fine, quello che veramente rimane impresso in testa è il secondo pezzo, “Rise To Glory”, una processione liturgica ossessiva ed abbacinante, che unisce un certo prog-jazz, ombroso e soleggiato all’insieme (per capirci, simile a quello degli ispanici Orthodox), con echi morriconiani polverosi ed ansanti, come sotto un sole implacabile. Evocativa e pensante.

Ed il miele continua a sgorgare, copioso.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 4 voti.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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simone coacci (ha votato 7 questo disco) alle 15:20 del 8 aprile 2008 ha scritto:

Davvero niente male questi Earth "Mark II". Certo hanno riposto le smodate ambizioni indeterministe degli esordi, ma questo, per l'ascoltatore medio, non è necessariamente un male, anzi. Lo zoccolo duro del loro sound è rimasto quello: i riff hard rock spinti sino alla deriva trascendente, la trance minimalista fatta di brevi cicli e iterative varianti fatte di riverberi e distorsioni, l'impressionismo descrittivo e pischedelico che ne circoscrive le fughe ambientali. Mi piacciono "Miami coming morning (shine)" e "Omens and portents part 2" in particolare. Da tenerselo da conto, perchè in giro c'è ben di peggio.

Neu! (ha votato 6 questo disco) alle 15:19 del 29 agosto 2008 ha scritto:

così così