Electric Wizard
Black Masses
Da quando, per la prima volta, ho visto una foto degli Electric Wizard al completo, chiedermi come abbia fatto langelica (demoniaca? Sempre angeli decaduti sono ) chitarrista Liz Buckingham a scegliere il panzuto e truce leader Jus Oborn come compagno di vita è diventata una costante che non mi abbandona. Un po invidia, un po perplessità congenite. Non criticatemi: giudicate voi stessi lestetica della bella musicista. Ma quello della, ehm, stravaganza della coppia più doom del globo non è il solo dubbio che mi attanaglia. Oltrepassato il gossip da bar, rimane infine il più classico dei giudizi musicali. Qui convergono, idealmente, le due correnti di seguaci mai termine fu più calzante che si dibattono da anni sulla scelta, da parte delle streghe elettriche, di diluire enormemente il suono irto, cacofonico e disturbante di Dopethrone in effetti, visuali e distorsioni psych-vintage (lultimo Witchcult Today ne è un esempio), ampie dilatazioni dantan a mo di commento per orrorifici splatter di serie Z mai realizzati (ma sicuramente pensati). Una virata più sensuale, orecchiabile, per quanto possibile femminile, laddove in un primo momento era stata la mente di Liz a piegarsi alle spigolose esigenze dei compagni di band.
Black Masses, per almeno sei ottavi, è un disco di canzoni. Non lo dico con disprezzo, né critico questimpostazione. Nemmeno cito, sul banco degli imputati, lincolpevole mistress Oborn alla stregua del presunto capro espiatorio verso cui indirizzare i malumori dei primi affezionati. Nel percorso di un gruppo capita di dover soppesare i pro ed i contro di unevoluzione occhieggiata a lungo, da lontano. Gli Electric Wizard, con piglio tenace, si sono progressivamente, collettivamente involati sulla strada della scarnificazione e della semplificazione, a scapito del machismo metal, della pesantezza stoner e del senso del ridicolo di cui si macchiano gli ultra puristi, incapaci di reggere il peso degli anni senza scrivere lavori tutti uguali fra di loro. Black Mass, apertura del quasi omonimo album, è il punto di arrivo finora più alto di tale sintesi: riff hard fregato ai Pontiak, conduzione rocknroll coperta da plumbee coltri doom, chitarre ricoperte da fuzz. Linno al pragmatismo tinto di nero, stilizzato negli anni 70 e privato di ogni finto esoterismo: queste messe nere sono parenti strette di quelle celebrate dai Black Widow. Malignità gigiona ma non meno efficace.
Il mordente dei nuovi brani, tuttavia, seppur a volte efficace al limite della dipendenza (da cosa?), fatica ad imporsi e a piacere. Banale e monotematica una Scorpio Curse, ad esempio, che cerca di assimilare la componente deteriorata del blues dei St. Vitus riuscendo in uno stiracchiato compitino. Non bene pure Patterns Of Evil, pesante blocco di compatta ma limitata potenza chitarristica: i fantasmi di Witchcult Today e dei migliori epigoni, Ufomammut in testa, sono dietro langolo. Che fare? Onde evitare di dibattersi in uno spiacevole cul-de-sac, Oborn e soci propongono addirittura tre soluzioni differenti, con il minimo comune denominatore dellattenzione quasi cinematografica. Allascoltatore decidere se tornare indietro nel tempo ed assorbire limpatto oscillatorio dello strascicato sludge di Satyr IX (linvenzione zeppeliniana che gli EyeHateGod non hanno mai avuto, per capirci), se votarsi alle aperture improvvise di Turn Off Your Mind (George Romero, sei allascolto?) o se lasciarsi cullare dagli schiocchi e dai rumori della grandguignolesca Crypt Of Drugula, nove minuti di divertito citazionismo che giocano ad ombreggiare una texture strumentale dallattitudine a tratti goth.
Chi li ama li segua.
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