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R Recensione

7/10

Lento

Fourth

Difficile tenere il conto di quante cose cambino in un anno, figurarsi in cinque. Per i Lento, poi, il lasso di tempo che dal sontuoso “Anxiety. Despair. Languish” ha portato al salomonico “Fourth” rassomiglia, più che alla loro Newport, all’uragano abbattutosi sull’abulica e stralunata Xenia di Gummo. La prima decade di attività dei romani, aldilà di puntigliose e perigliose questioni di etichetta (il passaggio da Denovali alla belga Consouling Sounds, seconda metamorfosi se comprendiamo la prima transizione da Supernatural Cat), porta in dono un autentico terremoto strutturale: l’esclusione di due terzi della sezione chitarristica (fuori Donato Loia e Giuseppe Caputo) e l’adozione di un più snello assetto a tre, con synth e sampler di volta in volta affidati al chitarrista superstite Lorenzo Stecconi o al bassista Emanuele Massa. Una vera e propria rifondazione, di fatto, se si considera che l’intreccio vorticoso di riff e l’annichilente muro di suono erano caratteristiche fondanti dei “vecchi” Lento (una banalità eclatante, specialmente se li avete visti dal vivo).

La posizione di “Fourth” è, dunque, particolarmente difficile: da un lato deve essere in grado di garantire una certa continuità con la precedente produzione dei capitolini e, dall’altro, deve riuscire a non snaturare completamente il dna di una band nata su presupposti ben diversi. Per quanto ardua potesse essere la sfida, i Lento – persino sorprendentemente – la stravincono. Se possibile, anzi, “Fourth” è il disco più elaborato, contorto e magmatico mai scritto da Lorenzer e compagni: un monolite prog-doom mai del tutto decifrabile, una navicella cosmica pervasa da imponenti scariche elettriche. L’ascolto, conseguentemente, ancor più che nel recente passato, si fa complesso e impegnativo. Si prenda un brano come “A Gospel Of Resentment”, una slavina di frequenze nerastre e brutali colpi sotto la cintola spezzata da breakdown acidi, arpeggiati post metal e una coda di apocalisse drone da far venire i brividi: magistrale è poi il continuum con l’americana astratta e spazzata da folate dark ambient di “Last Squall Before The Crack”, come un drcalrsonalbion (o la Squadra Omega della O.S.T. di “Lost Coast”?) integrato nella line up dei Set Fire To Flames.

Tutto, in “Fourth”, sa di declino, disfacimento e trapasso, come dalla prospettiva di un viandante su un mare di rovine. “Let Bygones Be Bygones (A Grievance)” arriva ad un passo dai minimali raccoglimenti psych-jazz dei Dead Elephant di “Thanatology” (il tema del lutto è, peraltro, comune), laddove “Undisplaceable, Or A Hostile Levity” oscilla nel denso diapason orrorifico di un Lustmord versione Space Odyssey. Ci sono, poi, le cavalcate a rotta di collo, i traccianti che fanno legittimamente dubitare dell’effettivo rimodellamento della formazione (la volumetria di “A Penchant For Persistency” depone a favore di un ensemble orchestrale costretto a suonare un ibrido di YOB e Darkthrone, mentre “Cowardly Compromise” è un’esaltante asfaltatrice mono riff) e gli affreschi grandguignoleschi modellati a mo’ di mini suite che cambiano volto ad ogni secondo che passa (alcuni frangenti di “Some Disinterested Pleasures” sono permeati di un groove davvero irresistibile). Si arriva, infine, alle devastanti bordate doom di “A Matter Of Urgency” (l’episodio dove più forte si fa l’influenza di costruzioni e progressioni metal), che monta inesorabile per quasi quattro minuti e poi, inavvertitamente, si spegne in un blues crepuscolare fatto di niente, una catacomba elettrica eretta in mezzo al nulla ed al nulla tornata: una transizione impressionante per ideazione e realizzazione.

È forse così che, osservando la fine, si brinda ad un nuovo inizio. Well done, guys!

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