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R Recensione

6,5/10

Nibiru

Netrayoni

I conservatori mi repellono. I reazionari mi mettono addosso l’orticaria. Degli antiprogressisti temo in egual misura la rigidità dogmatica e l’incapacità di vivere il loro tempo. Politica o musica, fa lo stesso. Senza sperimentazione, contaminazione, innovazione non c’è futuro. Con ogni probabilità non mi costerebbe niente concedere un ascolto ai nuovi Iron Maiden o al quattrocentesimo gruppo motorik dell’Albione post-new new wave: ma non ho intenzione di farlo. Vale la pena parlare, aprirsi ad altro: non troppo paradossalmente, anche per avallare le ragioni di quei moderati che il troppo stroppia (ma senza anticorpi tutto è troppo, ovunque va in scena un trionfo di esplosioni: bisogna sapere quando si esagera, non puntare il dito su ciò che si ritiene a prescindere esagerazione).

Dai miasmatici anfratti di una Torino luciferina i giorni pari e mistico-rosacrociana i dispari, poi, sale il lezzo di putrefazione dei Nibiru, come il fantomatico pianeta zooparo di Zacharija Sitčin. Nessuna presentazione, scarna la biografia, difficili da ricostruire le precedenti esperienze artistiche (i Tronus Abyss… chi eran costoro?). Il telegramma recita, di seguito. Formazione: 2012. Esordio discografico: “Caosgon”, 2013. Sophomore: “Netrayoni”, gennaio 2014. Segni particolari: novantaquattro, putridi minuti spalmati con equilibrio su “Ritual I: The Kaula’s Circle” e “Ritual II: Tears Of Kaly” (un mastodonte, praticamente). Sbalordisce ed ottunde, quantomeno, venire a conoscenza di un gruppo del genere in un modo del genere: casualmente, senza preavviso, senza preparazione, senza un adeguato entroterra. Degli Ufomammut radicali, viscerali e sotterranei (altrimenti parafrasabile: dei Tons senza un briciolo di autoironia) legati ad immaginari criptosacrali, occultistici: gli Asphyx mitragliati dai sample dei b-movie gothic horror degli anni ’60 e ’70. Un magma unico ed indefinibile. Un’impressionante, statica, solida colata metallica. Gli schemi ideologici, lo si capisce, vanno a farsi benedire.

Su dieci pezzi, cinque superano i dieci minuti, due i quindici. Il migliore – e doveroso da ascoltare, in cuffia, in religioso silenzio – è “Sekhmet” (7.25), pendolino heavy-psych che fluttua tra spirali di suono e tonitruanti lampi d’organo: gli OM delle nebbie padane. Ad impressionare, per concreta capacità di materializzare l’indefinibile (un inesorabile disfarsi strumentale, lo smarrirsi nei valvolari, una ricerca feroce del riff sempre più basso, della vibrazione sempre più cupa), è “Kshanika Mukta” (17.13), che cristallizza il doom come inferno mefistofelico che va in giro solo di notte, come tutta la gente cattiva. I sintetizzatori che montano lo strapazzato albume Hawkwind di “Celeste: Samsara Is Broken” (10.54) sono la variazione – space – su tema maggiormente significativa ed apprezzabile. Lo straziante sludge EyeHateGod di “Qaa-Om Sapah” (13.15) si permette, infine, di aggiungere bpm senza modificare il nocciolo della sostanza.

Il resto è esasperata paranoia, distorsione, incubo ad occhi aperti: una prova così pervicacemente testarda, chiusa ed impermeabile all’esterno da non poter non suscitare, a suo modo, ammirazione e meraviglia.

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