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R Recensione

5/10

Orthodox

Baal

Asceti di tutto il mondo, unitevi! Un rosario di penitenza vi seppellirà. Fate in modo di farvi trovare pronti, a vostro agio, sandali ai piedi e saio stretto ai fianchi dalla cintura di corda. Anche se, diciamocelo pure, pare non vada più di moda. Gli Orthodox, ad esempio, si sono stancati di recitare il ruolo di anacoreti in fuga dalla realtà, legati a fumose – in tutti i sensi – tradizioni panteistiche e ad indecifrabili tradizioni filosofiche. Da quando il misticismo tonaca-style è stato rilanciato in grande stile dai Sunn O)) prima, largamente parodiato dai Goblin Cock poi, il trio ispanico è entrato in confusione. Ne avevamo parlato, un paio d’estati fa, a proposito di “Sentencia”, polpettone gringo-doom arroventato da potenti mastici free jazz che diluiva (quasi) inutilmente le buone intuizioni atmosferiche in esso contenute e, soprattutto, sceglieva deliberatamente di accantonare la vivacissima impostazione misterica e crepuscolare di un gioiellino (Toni Servillo ora non c’entra!) come “Amanecer En Puerta Oscura”. Pregavamo allora – per rimanere in tema – si trattasse di classico annebbiamento da ipertrofia discografica: preghiamo ora perché il gruppo si redima, una volta per tutte.

Il dialogo con il metafisico inizia e si esaurisce entro il titolo del lavoro, “Baal”. Quasi in preda ad un’incertezza estatica, gli Orthodox scelgono ancora una volta di cambiare marcia e, dopo la sbornia spiritualistica del predecessore, sterzano verso la direzione del doom cosiddetto, con distorsione multipla, ritmica battente, riff ispessiti. Il terreno che ricaccia il celeste là dove deve stare: nel celeste. La conseguenza primaria è che le canzoni, anche in virtù di un’osservazione distratta e superficiale, guadagnano in concisione e direzione. Quella secondaria, che sarà tanto più evidente quanto più gli ascoltatori si dimostreranno navigati a questo tipo di suono, è che degli Orthodox originari, oscuri, intriganti non rimane nulla: né l’imprinting, né l’ombra concettuale. Per dirla appena più brutale, strutture, aperture, sfumature del disco sembrano composte più dall’Uomo Qualsiasi (parecchio prolisso oltre che ordinario, aggiungeremmo) che non da una band capace, appena quattro anni fa, di tenere l’intera scena metal sotto scacco, alle soglie di un ciclopico rinnovamento dalle fondamenta, mai del tutto attuato per limiti personali – evidenziati nel corso delle ultime prove in studio – ed ampiamente disatteso nel futuro immediatamente successivo.

Segno sintomatico della spossatezza mentale in cui versano gli spagnoli è la totale mancanza di tensione che pervade la lunga, conclusiva “Ábrase La Tierra”, gotico cenotafio sludge tumulato da zaffate di feedback, non abbastanza coeso da puntare alla spallata free form e poco efficace anche sotto le vesti di semplice litania. Solo l’imballatissima “Taurus”, che suggella un semplicissimo bignami in cui cantato e sezioni strumentali si alternano con un arrugginito ed imbarazzante schematismo, riesce forse a lasciare ancora più amaro in bocca. E a poco serve giocare la carta delle desertiche distonie di “Alto Padre”, che si scioglie sul finale in una serie amplificata di mostruosi miraggi ad occhi aperti: i conti, che per un attimo sembrano tornare con l’incedere marziale dell’implacabile stoner di “Hani Ba'al”, vengono nuovamente a mancare a contatto con la struttura di “Iatromantis”, definitiva spersonalizzazione celebrata sotto l’egida dello schiacciante binomio Black SabbathElectric Wizard.

Espiazione prescritta: un mese a pane ed acqua, senza amplificatori di contorno.

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