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R Recensione

6,5/10

Ufomammut

Ecate

Per essere – come recita il comunicato stampa – un lavoro che “si discosta da buona parte del restante catalogo del combo piemontese”, il settimo disco degli Ufomammut squarcia il sipario con la daga della tradizione: la voce grossa di “Oro” (nello specifico, il marmoreo minimalismo dell’“Opus Primum”) e la vischiosa, stellare densità di “Eve”. Come a dire: la tensione bruciante dei muscoli e l’impalpabile incorporeità del suono. “Somnium” inizia a rotolare verso il basso, scivolando su una distesa di feedback increspata da droni pungenti ed echi misterici. In ottemperanza al decalogo tacitamente accettato e condiviso del doom, la scenografica entrata per accumulo (dapprima i tamburi ruzzolanti di Vita, poi il basso sabbathiano e iperdistorto di Urlo, infine il tagliente palm mute di Poia) brucia di potenza mefistofelica allo scoccare esatto del terzo minuto, soglia convenuta per una furibonda cavalcata in leggera sconnessione ritmica. Quanto segue in avanti è largamente prevedibile: infernal dyads a prova di decibel, biascichio esoterico di raccordo (la voce, dopo gli esperimenti quasi concrète di “Oro”, torna a sgomitare per un posto in prima linea) e chiusura trionfante.

Una rondine, tuttavia, non fa primavera. Non sarebbe corretto limitarsi, in questa sede, a rivisitare le nostre passate impressioni sui dischi precedenti del trio di Tortona, perché “Ecate” (per chi si appassionasse di antropologica applicata e fosse curioso di scoprire qualcosa in più sugli antichi legami tra la dea, Ade e Orco, consigliamo l’agile e recente Indagine sull’orco, di Tommaso Braccini) si sforza effettivamente di diversificare una formula inchiodata al muro del manierismo, e sfruttata efficacemente solo in virtù dei fantasmagorici mezzi tecnici e dell’esperienza pluriennale. “Temple”, allora, assume senza fallo le proporzioni del pezzo prog degli Ufomammut: un’inarrestabile colata di fango à la Sons Of Otis, monocroma sino allo sfinimento nel timbro, ma vitalissima nelle dinamiche ritmiche e negli incastri strumentali. “Revelation” è, perdonerete il calembour, un episodio illuminante, necessario per tirare il fiato: drone-doom psichedelico from outer space che mai gli Ufomammut avevano scritto prima d’ora. La tanto blasonata “Plouton” scolpisce dall’interno la polpa impenetrabile della “Part III” di “Eve”, aprendo i distorsori e giocando con i vuoti che si annidano nell’andamento in levare. Stupenda nella disposizione, letale nella realizzazione è “Daemons”: Melvins e Lustmord si prendono a cornate nella prima metà (come avrebbero dovuto fare nel loro “Pigs Of The Roman Empire”), defilandosi infine all’approcciarsi di una coda che è autentico uragano sonico, orrorifico gorgo di distorsioni che inghiotte gli armamentari del Simonetti d’antan.

Arrivati al terzo disco per la Neurot di Steve Von Till (Neurosis), gli Ufomammut hanno raggiunto un tale status artistico e mediatico da potersi permettere, senza alcun contraccolpo, il totale immobilismo. Ci rincuora, più di quanto possa esprimere il voto, constatare come i ragazzi abbiano invece scelto di andare avanti.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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