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R Recensione

6,5/10

YOB

Clearing The Path To Ascend

Partiamo dalle note sinestetiche, quelle di colore. Rolling Stone ha inserito “Clearing The Path To Ascend” al gradino più alto del podio dei migliori dischi metal dell’anno appena trascorso. Gli YOB, del tutto inaspettatamente, hanno sbaragliato la nutrita e serratissima concorrenza di una fila di avversari di tutto rispetto: Slipknot, Electric Wizard, Melvins, Mastodon, Godflesh, The Austerity Program, Triptykon, i rientranti At The Gates, persino la strana coppia Scott Walker e Sunn O))). Discettare sulla competenza o, addirittura, sull’attendibilità di una classifica compilata da un magazine con una linea editoriale ad essa completamente estranea può portare a malevole deduzioni: che, cioè, il trio di Eugene, Oregon abbia scritto un platter così potabile e popolare da poter essere intercettato e fruito, in primo luogo, da chi non abbia mai ascoltato del doom in vita sua (chi non fa mistero di non farsi scrupoli potrebbe gridare, conseguentemente, alla perduta verginità ideologica di Neurot Recordings, nuova ed accogliente casa del power trio dopo una parentesi alla Profound Lore).

Conclusioni affrettate: dunque, errate. Arriviamo alle altre note, quelle reali. Il solo, sensato appunto che può essere mosso nei confronti della settima prova studio degli YOB (la terza in seguito alla fortunata reunion del 2008) sta nella sua stessa codificazione, come tassello di un lungo e tortuoso percorso che – come spesso succede in questi casi – ha trovato progressiva e crescente legittimazione proprio nel suo non disattendere mai le aspettative esterne. Ci si può incaponire su questioni di lana caprina, dettagli insignificanti per chi non mastichi da mane a sera l’heavydelia e quanto con essa confina: si può spaccare il capello in quattro e, applicando lo stesso metro di giudizio con cui molti hanno ritenuto di dover ridimensionare lo straordinario curriculum degli Ahab sul versante funeral death doom, puntare il dito su una malleabilità di arrangiamento sempre più devoluta alla stratificazione prog e sempre meno alla mortifera violenza del riff. Piccolezze pretestuose, sottigliezze retoriche. “Clearing The Path To Ascend” è, forse, l’opera più raffinata degli YOB, ma l’evoluzione stilistica rispetto al precedente “Atma” (2011) rimane, in ogni caso, minima. A smentire ulteriormente chi vede negli statunitensi, oggi, improbabili alfieri di un sensibile melodismo romantico, c’è poi “Nothing To Win”, una corposa e belluina riedizione degli Sleep di “Dopethrone” suonata con l’impeto di un gruppo death punk (provare per credere: davvero godibile il drumming di Travis Foster) e successivamente frammentata in una ridda di diapositive acid-psych ad alta gradazione.

A recitare l’ingrato ruolo di pomo della discordia è, in verità, “Unmask The Spectre”, terza di quattro. I suoni, suggestivi e curatissimi come sempre, confondono anziché aiutare: se la possenza atlantica della sezione ritmica non può non rievocare i Neurosis di “A Sun That Never Sets”, è piuttosto la chitarra di Mike Scheidt a caricarsi di accenti sacrali (gli Ornaments, in Italia, sono forse il paragone più appropriato), retrò (la pasta è la stessa, vibrante, dei Saint Vitus), conflittuali (i feedback che distruggono la continuità del brano, in coda). Chiarirà poi “Marrow”, ineluttabilmente, in quale direzione abbiano deciso di incamminarsi gli YOB, e quale abbiano invece eluso: arpeggi pieni e riverberati, andamento ad un tempo pesante ed estatico, il timbro vocale di Scheidt quasi trasfigurato ad altezze femminili, un lungo tramonto pompeiano che pencola sulle trame strumentali. Un brano post metal eccezionale, contemplativo e fuori dal tempo (sarà stata questa la scintilla con Rolling Stone?), che si oppone però con decisione all’iniziale “In Our Blood”, gelido tributo all’estetica degli Shrinebuilder.

Da buon disco doom, “Clearing The Path To Ascend” nulla aggiunge ai suoi predecessori. Suggerisce, piuttosto: e se fosse venuto il momento di volgarizzare, in senso etimologico, l’autoreferenzialità del genere?

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