YOB
Our Raw Heart
Gran parte di Our Raw Heart, ottavo disco degli YOB e primo in ordine di tempo dallottimo Clearing The Path To Ascend di quattro anni fa, è stato scritto sul letto di unanonima stanza dospedale. La penna del trio di Eugene, Oregon, il cantante e chitarrista Mike Scheidt, ha rischiato di non vedere più la luce del sole coi propri occhi: colpa di una diverticolite acuta che, diagnosticatagli già sul finire del 2016, lo ha costretto nel giro di qualche settimana ad un ricovero durgenza, con relativa operazione e difficoltosa riabilitazione (qui si possono leggere tutti i dettagli, raccontati dal diretto interessato). La naturale metafora del toccare il fondo per poi risalire dimpeto non è mai stata così automatica, eppure davvero difficile negarne levidenza nei lunghi e metamorfici movimenti di Our Raw Heart si respirano a pieni polmoni il dolore, la sofferenza, lamaro riconoscimento della caducità umana e la successiva catarsi, la rinascita a nuova vita. Il doom si fa carne e poi estasi, limite ed infinità, dalle viscere della terra alle sfere celesti e ritorno.
È pertanto comprensibile che, a dispetto del plauso generale che ha ricevuto il disco per il maggior peso attribuito dufficio alla melodia (una tendenza già accentuatasi a partire dal secondo stint della band, inaugurato ormai dieci anni fa), lascolto sia lungo e tortuoso, spesso accidentato. Impegnativa, in particolare, la doppietta The Screen In Reverie, quasi venti minuti di gigantismo sludge a variazione minima: fin troppo meccanico e martellante il reiterato riff della prima (con un dilatato ritornello di epica post-core à la Shrinebuilder), una geremiade singhiozzante e impregnata di patetismo la seconda (con uno Scheidt calato in una pantomima che rende omaggio alla grande tradizione dellheavy metal, i compianti Dio e Warrel Dane su tutti). Meno radicale e spietata la selezione quantitativa operata da altri brani: irsuta e selvatica la cavalcata post metal a rotta di collo, con assolo mastodoniano, di Original Face (dove certe soluzioni di intervalli chitarristici ricordano addirittura storiche istituzioni dello screamo novantiano, dagli Orchid in giù), mentre la decadente magniloquenza delle texture strumentali di Ablaze siamo dalle parti degli ultimi Minsk viene abrasa da uninterpretazione vocale di lancinante crudezza blues e i rivoli dark ambient di Lungs Reach ingrossano una travolgente piena death-doom, tra Ahab e Cult Of Luna.
Poi, proprio quando sembra che nel monolitico muro del pianto non si possa più aprire spiraglio alcuno, ecco un raggio di sole a fendere le dense tenebre: un sole autunnale, pallido, declinante eppure pronto a sorgere nuovamente. I sedici minuti e mezzo di Beauty In Falling Leaves sono la vera oasi emozionale dellintero disco: una semplice, dolente ballata folk intessuta di liquidi arpeggi neo-prog, le cui esplosioni elettriche vanno a comporre un quadro di marcescente malinconia, una maestosa Ringkomposition che rinfranca animo e passo. Suo completamento ideale, e naturale evoluzione della narrativa interna, limponente title track in chiusura: una trionfale parata psych-post metal dal paesaggismo crepuscolare che, in coda, si impunta sulla reiterazione solenne della medesima frase chitarristica, quasi a chiosare lagognata rigenerazione con la sovrabbondanza caratteristica dellheavy.
Non in molti riescono a sopravvivere ad unesperienza come quella vissuta da Scheidt: figuriamoci a raccontarla. In questa coscienziosa euforia esistenziale sta, senza dubbio alcuno, il merito più grande di Our Raw Heart: che tuttavia, se avesse potuto godere di un minutaggio più contenuto e di una scrittura meno espansa, sarebbe riuscito ancor meglio nel suo intento. Così, invece, più dellestetica vale la testimonianza. Non è certo poco, ma è sempre meno di quanto ci si potesse aspettare.
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