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R Recensione

7/10

Earth

Angels Of Darkness, Demons Of Light 1

Forma batte concetto, uno a zero. È un riferimento, perlomeno momentaneo, a tutta quella stampa specializzata d’Oltremanica che, appena qualche anno fa, nel deserto generale del gossip musicale spacciato per giovanilismo imperante pubblicava un sondaggio a campione su quale canzone l’intervistato avrebbe voluto fosse suonata al suo funerale. C’è chi scelse il puro e semplice silenzio, chi puntò agli evergreen rock come “Stairway To Heaven”, “The Show Must Go On” – cioè, mentre sei freddo e riverso in una cassa di legno vorresti davvero che ti cantassero attorno che lo show deve andare avanti? –  o “Hallelujah” (la versione di Jeff Buckley, chiaramente: sai mai che qualcuno nomini Leonard Cohen…), chi citò la classica masnada di autori classici d’eccezione. Preferenze piatte e banali: non che la domanda principe fosse poi qual pozzo di intelligenza, ci si capisca. Rimaniamo però un attimo in tema funeral – d’altro tipo, chiaramente – e diamo spazio agli (ingiustamente) snobbati dell’argomento: gli Earth.

In principio fu il suono: ed ecco, esso era gravido, pesante, nirvanico. Un mi basso, per l’esattezza. Il medesimo che tuona, serafico e riverberato, nella splendida cattedrale gothic-western di “Old Black”, traccia che apre le danze in slow-motion di “Angels Of Darkness, Demons Of Light 1” (primo lavoro di un'annunciata trilogia) e separa, con un netto lavoro di cesoia, la band di Dylan Carlson (rinnovata dall’ingresso in formazione del violoncello di Lori Goldston) dal suo plumbeo passato drone. L’intensa serie di dischi che si sono susseguiti a partire da “Hex, Or Printing In The Infernal Method”, infatti, ha segnato un cambio di rotta passo dopo passo sempre più definito e percettibile nella direzione di una psichedelia densa, mistica, emotiva, pasticciata non più solamente con l’approccio in sospensione alla materia musicale della formazione americana, ma anche con nuove e rinnovate influenze “corporee” in senso stretto. La volontà di tentare una costruzione melodica maggiormente raffinata e biforcata nelle direzioni dell’intelligenza ambientale e della sensibilità organica, peraltro cercata affannosamente anche dai colleghi Sunn O)) con l’ultimo “Monoliths & Dimensions”, permette agli Earth di rifuggire da un pantano dove l’idea iniziale, rivoluzionaria – l’iterazione estenuante di poche note, dilatate in luoghi temporalmente non definiti – ha finito per assumere le vesti di un eccezionale pretesto in favore della mancanza stessa di intuizioni.

Accennavamo ad un violoncello e, come crediamo sia nelle espresse intenzioni degli stessi autori, attorno alla curiosità per l’insolito accorpamento si ingigantiscono le prospettive dell’opera. Tuttavia, bisogna essere sinceri: esclusi un paio di excursus degni di nota, vibrazioni primordiali che risvegliano l’intimo e pongono il lavoro della Goldston prospiciente – ma non coincidente – alle tonalità epiche di Charlotte Nichols dei Crippled Black Phoenix (specialmente in “Father Midnight”, caracollare desertico giocato su un canovaccio di destrezza geometrica tra il cordofono e la chitarra), lo strumento tende maggiormente a lasciare libero il campo d’azione per la vera leader,  una sei corde – a tratti particolarmente ispirata – che da esso viene più volte appoggiata e rinforzata. Nascono così “Descent To The Zenith”, ipnotica nenia mariachi che culla in seno echi e dissonanze, “Hell’s Winter”, che tende a smorzare ancora di più i ritmi e ad addormentare l’azione in una lisergica, infinita spirale doom e, soprattutto, i venti minuti dell’imponente title-track, un parziale recupero dell’astrazione degli esordi dentro lo ieratico, terminale post-blues espresso da un gruppo in smaglianti condizioni psicofisiche.

La copertina per paramento sacro, queste canzoni per l’estrema, solenne liturgia: eccole, le esequie che vorrei! Si fa per dire…

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