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R Recensione

8/10

Cap'n Jazz

Burritos, Inspiration Point, Fork Balloon Sports, Cards in the Spokes, Automatic Biographies, Kites, Kung Fu, Trophies, Banana Peels We've Slipped On and Egg Shells We've Tippy Toed Over

Non sbaglia chi pensa che (anche) venti anni fa l’underground americano fosse una sorta di Eldorado, la Terra Promessa per tutti gli innamorati della musica alternativa, nella fattispecie peraltro miracolosamente sopravvissuta all’uragano del grunge.

Non sbaglia neanche chi vede in Mike Kinsella il profeta, la guida spirituale della nuova orda di spiriti ribelli. Colui che ne scrive le tavole della legge.

Lui e la sua batteria arzigogolata, con i suoi accenti mutevoli e imprevedibili, gli stacchi rubati al jazz e i ritmi frenetici riassume nel migliore dei modi il processo di astrazione che ha radicalmente trasformato il punk-rock della provincia americana in una forma di musica cerebrale.

Vengo al dunque: i Cap’n Jazz, prima creatura di un Mike Kinsella minorenne, in combutta con il fratello, sono l’anello di congiunzione fra il post-hardcore sovrastrutturato ma esplosivo che disegnano prima gli Squirrel Bait e poi i giganti della scena di Washington, e l’emo-core dilatato e cristallino dei suoi American Football.

In questo disco dal titolo impossibile mi colpiscono più di ogni altra cosa le dinamiche: modernissime, decostruite ed evolute in chiave post, ma nel complesso ancora profondamente emotive e giovani.

Questo è emo-core nella sua essenza più pura, nonostante i tempi siano meno serrati e si avverta un tentativo (meravigliosamente naif) di sposare i lunghi e “silenziosi” movimenti di chitarra teorizzati da Slint e compagnia. Di fatto, questo è rock che muove qualche passo oltre i confini del suo perimetro, per adocchiare forme di espressione già “post”, evidenziando la sorprendente maturità del giovanissimo leader.

La voce sfibrata e rubata a un’adolescenza inquieta è quanto di più core esista. Chiaramente si muove entro le coordinate tracciate da Squirrel Bait e compagnia, nel suo puberale colorito aspro. Oggi può apparire sin troppo inflazionata, ma se la collochiamo in un’epoca segnata dai vocalizzi maschi e “dominanti” del nuovo hard-rock, travestito da grunge, rappresenta una novità dagli effetti potenzialmente dirompenti.

Altro pregio indiscutibile del disco: la durata dei brani, che raramente supera i tre minuti. I Cap’n Jazz, nonostante l’età, sono strumentisti di vaglia già in grado di rivestire di una forma compiuta le proprie idee. Mike Kinsella irrobustisce le composizioni con intrecci ritmici in cui si avverte il chiaro influsso del jazz più evoluto (lo spiattellamento continuo, le figure ritmiche spezzate) senza tuttavia mai abbandonare del tutto la chiave di lettura hardcore (detto altrimenti: la batteria che lavora come una mitragliatrice).

In brani come la infervorata “Que Serte”, che gioca benissimo con l’"alto" e con il “basso” dei volumi senza concedere tregua, è già racchiuso quello che sarà il discorso di tante band dei giorni nostri (“Whenever, If Ever”), anche perché mette in mostra un talento melodico sopra la media.

Little League”, più fumsa ma sempre costruita in chiave “architettonica” con i suoi cambi di tempo, si gioca il titolo di brano più significativo dell’album, mentre le grida di “The Sands Have Turned People” incarnano al meglio la precoce maturità esecutiva e concettuale di questi ragazzini del mid-west.

Non ci sono peraltro brani sfocati o meno incisivi, questo breve album ha il pregio della democraticità interna. E merita un ascolto attento, oltre che un plauso convinto, perché si mangia in un boccone un buon 90% di ciò che ha contribuito a originare. Beata gioventù.

 

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