Funeral For a Friend
Tales Dont Tell Themselves
E storia vecchia, un film visto e rivisto: un gruppo di giovani scalmanati pieni di belle speranze sfodera un disco discreto o poco più, che però adeguatamente pompato dai media riesce a ottenere un ottimo impatto popolare. Accade allora che in genere il gruppo passi alle dipendenze di una major e la promettente attitudine dellesordio viene cancellata per far spazio a un suono più easy listening, commerciale, capace di scalare sì le classifiche di vendita ma anche di intercettare le motivate ingiurie dai critici.
La storia dei Funeral for a Friend si adatta abbastanza bene al modello sopraesposto. Dopo una manciata di prove discrete (Seven ways to scream your name e Casually dressed & deep in conversation, entrambi del 2003) in cui i ragazzi australiani mescolavano hardcore, emo e metal ricorrendo ad un ampio uso dello screamo arriva il passaggio allAtlantic e il disco del compromesso Hours, segnale evidente di un addolcimento del sound: meno urlacci, meno sfuriate chitarristiche e maggior spazio a melodie pop.
Il fragile equilibrio di Hours viene ora definitivamente rotto da Tales Dont Tell Themselves: il punk-harcore degli esordi è ormai un ricordo lontano e lascia spazio al limite (ci riferiamo a On for the road) a un bonario college-rock alla Blink 182 appena orecchiabile ma privo di furore. Si salva forse parzialmente solo la tirata Out of reach, la classica eccezione che conferma la regola. Lemo è scomparso, rimane giusto la volontà di imbalsamare gli ascoltatori con pezzi strappalacrime (The sweetest wave) che vorrebbero essere romantici, malinconici e epici ma risultano solo miseramente patetici.
Questa era la parte migliore del disco, il che è tutto dire. Il resto sinceramente è una delle cose più imbarazzanti che si possano ascoltare. Into oblivion per esempio, è un brano che potrebbe essere fatto da un qualsiasi gruppo pop plasticato di Mtv e testimonia la trasformazione definitiva del gruppo in una boy-band rock. Non per niente in On a wire sembra di sentire i Backstreet Boys con appena qualche chitarra accentuata. The great wide open è lesempio più lampante di un punk falso, tremendamente patinato ,che potrebbe tranquillamente vincere unipotetica fiera delle banalità. In generale i riff, le melodie e i vocalizzi insistiti (questi ultimi particolarmente acuti e fastidiosi) suonano tutti come estremamente vecchi e scontati, e il fatto che vengano ripetuti in continuazione nella stessa salsa non aiuta un orecchio ormai sconvolto.
Forse brani come Walk away riusciranno comunque a spopolare presso ragazzine adolescenti ignare dei maestri del punk-rock, ma di certo non basteranno allascoltatore medio. A chi scrive non resta che tornare a Casually dressed & deep in conversation: non che fosse poi questo granché, ma almeno suonava onesto.
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