Have A Nice Life
The Unnatural World
Sei anni fa hanno debuttato pubblicando in il maestoso Deathconsciousness, che tradiva ambizioni esistenziali profonde e colte, un malessere nero diffuso, forse anche una certa pretenziosità.
Pubblico e critica tendenzialmente avevano acclamato l'opera, ma non erano mancate voci controcorrente, pronte a bollarla come una noiosa palla gotica senza capo né coda.
Io ero più vicino ai tanti ammiratori, anche se qualche lungaggine di troppo e una marcata tendenza a strafare mi avevano fatto arricciare il naso, mentre mi perdevo in quei padiglioni gotici nascosti alla periferia dell'universo conosciuto.
Gli Have a Nice Life sono un duo misterioso, e non solo perché nessuno li ha mai visti o perché realizzano e pubblicano tutto in proprio: la vera ragione è che sono una di quelle realtà scorbutiche e intransigenti che possono fiorire solo nell'underground americano, da sempre il regno dell'anarchia delirante (qualcuno ha sentito parlare degli Half-Japanese, o magari, più di recente, del manicomio criminale degli Infidel? / Castro!, il cui solo nome è tutto un programma di pazzia elevata al cubo?).
Un duo americano nello spirito, ma decisamente più britannico nella calibrata scelta delle fonti cui attingere: Tim Macuga e Dan Barrett devono aver dedicato questi anni di silenzio (interrotti solo da un singolo scarnificato e da un breve EP pubblicato nel 2010) a percorrere il filo conduttore che collega il cupo esistenzialismo di fine anni '70 (sì: Joy Division, e quindi i nugoli di imitatori, e poi The Cure, i più ariosi Chemeleons) con i rumori disturbati di marca industriale che hanno animato (?!) soprattutto il decennio successivo e anche gli anni '90.
Nelle lunghe e cupe sinfonie del duo, nelle loro agonie che scendono verso gli inferi, nere come la pece, gonfie di fumo denso e scuro, si intravede la sagoma di Mike Gira e degli Swans (specie quelli della maturità, meno grotteschi e furibondi), e io aggiungo le litanie inquietanti di quel sommo maestro dell'oscurità che risponde al nome di Douglas P. (provare per credere alcuni dei luoghi più sinistri di tutta la musica: The World That Summer, The Wall of Sacrifice, o ancora lugubri lenti abbarbicati sul dolore eterno come Come Before Christ and Murder Love).
E dimentico sicuramente qualche nome di vaglia: potrei citare l'ambient sinistra che da tanti anni fa proseliti nel mondo underground, e naturalmente l'estasi allucinata di tutti gli shoegaze, muse principi del lavoro precedente che anche qui si ritagliano un ruolo di primo piano.
The Unnatural World è un gorgo nero senza fine, non concede respiro né una spalla dove appoggiare i nostri tremori. Il vuoto si mangerà la strega, sussurra una voce lontana e carica di effetto mentre la tastiera trascina all'infinito un basso dolente, sul finire del disco.
Rispetto al lavoro precedente, però, l'album appena dato alla luce ha un pregio rilevante: la durata.
Le opere migliori sono quasi sempre di minutaggio contenuto, e questa non fa eccezione, perché rispetto al disco del 2008 qui diventa più difficile scovare momenti meno isipirati o anche solo brani che riciclano senza sosta atmosfere e temi che si potrebbero rendere con più efficacia dimezzando i tempi.
Nel mondo innaturale il brano più lungo supera di poco gli otto minuti e conserva un'ispirazione intatta, una tensione di fondo pura per tutta la durata.
Anche le voci dilatate e i dialoghi sinistri che smuovono le acque di certi lenti industrial-ambientali sono sicuramente d'atmosfera (Music Will Untune The Sky), perché evitano di perdersi in lungaggini che non possono sostenere.
Guggeneihm Wax Musuem, il brano introduttivo, è shoegaze marcato stretto dall'industrial che ti conquista a sorpresa con la sua efficace vena pop, quasi valorizzata dal coacervo di rumori in cui è immersa. Vorrei essere vivo, cantano i due, e direi che questo è il miglior viatico per entrare alla festa del mondo innaturale.
Defenestration Song (allegria portami via) si apre come un pezzo post-punk d'annata, con le percussioni che si materializzano nel buio, la chitarra che si contorce, la voce solenne e gotica: qui l'impronta Joy Division diventa decisamente preponderante, contraddetta solo dal ritornello enfatico.
Burial Society, fedele al titolo, allarga gli orizzonti in direzione elettronica, con un beat ottuso e le tastiere in cascata. La cosa stupefacente, anche qui, è che il bello del pezzo sta anche e soprattutto nella melodia, malinconica ma accattivante. Nel complesso, gli esiti sono dark-wave con tutti i crismi, quasi una rilettura in chiave futurista di "Isolation" da "Closer".
L'esito complessivo è poco rassicurante, per noi che siamo alla costante ricerca di certezze. Ma possiamo perdonarli lo stesso, anche di sei anni di quasi-silenzio: l'attesa non è stata vana, il duo sembra sulla strada giusta per stupire ancora.
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