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R Recensione

7,5/10

Peter Murphy

Lion

I Am My Own Name. La rivendicazione di un’identità spiattellata ai quattro venti, così. Come se il decimo album da solista non fosse una garanzia delle proprie peculiarità artistiche. Come se il fatto di aver marchiato gli anni ’80 militando nei Bauhaus sia un particolare trascurabile. Il destino di chi, nonostante il curriculum da veterano dei palchi e le quasi sessanta primavere sulla pelle, si ritrova a dover combattere le proprie titubanze che assumono la forma di un feroce leoni.

Sarà la produzione cristallina curata da Martin “Youth” Glover che ha inferto le sferzate più rock. Oppure le ultime tournee al fianco di Trent Reznor passate ad immergersi  nell’elettronica più glaciale. Sta di fatto che il Murphy di Lion è un’artista eterogeneo, antropomorfo, che rifugge le severe standardizzazioni di genere per cercare la sua personale sostanza espressiva. Costi quel che costi. Perché il discorso, una volta entrati nelle selve oscure dei leoni, salta a piè pari le pantomime attorno ad armonie e  arrangiamenti più o meno performanti e originali e si assesta nelle sovrastrutture dello sballo comunicativo. Il microcosmo di Murphy, infatti, è simile ad una bolla di sapone che sembra sempre lì sul punto di esplodere ma finisce per gonfiarsi attraverso la sintesi di  nuove esperienze.

Più delle parole a descrivere i fatti ci pensa la tripletta iniziale: Hang Up, I Am My Own Name, Low Tar Stars. Tre facce dissimili di una stessa medaglia, come l’effetto panning in copertina che immortala il volto di Murphy in una trimurti estetica. Da un lato il fumo post industriale che abbraccia l’incedere dei synth, le chitarre grevi e la teatralità straripante di un Murphy travestito da Bowie (Hang Up), dall’altro il classico manifesto gothic rock strutturato da perfetta hit radiofonica(I Am My Own Name)e ,per finire, la pacca convulsa di un industrial punk retrodatato di almeno 20 anni (Low Tar Stars).

Ecco. Basterebbe questo per far capire quanto il personaggio sia (volutamente) in cerca d’autore. Ma si potrebbe continuare citando il tourbillon di ispirazioni che parte dal blues di The Ghost of Shokan Lake, attraversa il classico mid tempo con tanto di ripartenza sugli incisi di Compression, che regala quei momenti biondo ossigenati del Billy Idol più elegante, e finisce nella marcia trionfale e barocca di Loctaine.

Tutte modanature artistiche con retrogusti precisi e decisi che nelle mani di Murphy diventano ben più che semplici manierismi trasformando Lion in una tra le sue prove più granitiche. Eterogeneità che dona omogeneità. Il risultato di una lotta vinta a combattere contro la ferocia di un leone interiore.

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