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R Recensione

7/10

Bologna Violenta

Discordia

Pensate a Bologna Violenta come ad un enorme blocco di argilla informe che, sotto le spinte contrastanti di mille forze vettoriali, giunge, un passo per volta, alla sua compiutezza ultima. Pistola e dare ordini. Solo attraverso un’intensa e continua elaborazione artistica (intesa come aggiunta-sottrazione di dettagli e allargamento-restringimento del suono, più che come shift stilistici in quanto tali, difficilmente praticabili per le regole non scritte del non-genere) si è potuta creare quella catena evolutiva che, dal caos primordiale dell’omonimo esordio, ha generato il grandguignolesco “Il Nuovissimo Mondo” e il dramma rococò di “Utopie E Piccole Soddisfazioni”, ripiegando poi sull’incolore “Uno Bianca”, ma rivitalizzandosi a partire da una doppia prospettiva, inclusiva del batterista tuttofare Alessandro Vagnoni. Dalla scenografia di fondo si stagliano, con nitidezza sufficiente, le anse e le spigolosità che contornano la figura plastica di quella che si conforma, a tutti gli effetti, come una band. Introdotti coraggiosamente nello split coi Dogs For Breakfast dell’anno scorso, i semi della più rilevante modifica genetica di Bologna Violenta attecchiscono ora nel fertile terreno di “Discordia”, alias il disco che “è ispirato agli esseri umani che dedicano la propria vita a mettersi gli uni contro gli altri per avere poi un unico, comune finale: la morte”.

Le pietanze migliori vengono servite da subito. “Sigle Di Telefilm” è lo splendido notturno di uno Chopin prestato al neoclassicismo (suona il maestro Paolo Polon), sostanzialmente ridoppiato dall’ingresso contemporaneo di chitarra, violino e batteria a 1:34 che, in progressive ondate (con un pregevole picco di decadentismo emotivo tra 1:54 e 2:04), si solidificano in mefitici batoliti grind. “Il Canale Dei Sadici” è un saggio di schizofrenica atonalità, fra Carcass e Schönberg. “Incredibile Lite Al Supermercato” – con Tiffany Taylor a sbraitare nel ruolo che fu di Jay Randall e Marco Cosulich – è un blob metallico che si fa ricordare per un divertentissimo ed inaspettato stacco lounge nel mezzo. “Un Mio Amico Odia Il Prog”, infine, adatta le contorsioni dei Dying Fetus (ottime le chitarre di Manzan) ad una raffinata bagatella sui riccardoni. Da qui in avanti la strada è spianata e, se anche qui e lì si inciampa in qualche incidente di percorso – l’heavy caricaturale di “Chiamala Rivolta”, il videogame impazzito della title track, l’interlocutoria “Passetto”, lo storto sintetismo de “L’Eterna Lotta Tra Il Bene E Le Macchine” –, la tenuta complessiva della scaletta non ne viene intaccata. Anzi: ci si deve sempre aspettare un qualche tipo di rilancio, come per i gonfi titoli di testa Titanium de “I Postriboli D’Oriente”, i fiati degli Ottone Pesante che sbucano ovunque in “Leviatano”, l’aura da mondo movie di sesta mano in “Lavoro E Rapina In Mongolia”, la parata militare de “Il Tempo Dell’Astinenza” e, soprattutto, il world grind di “Colonialismo”, in cui il suadente charango di Monique Mizrahi si fonde alla perfezione (inaspettatamente, devo dire) con la gelida narrazione di Manzan e Vagnoni.

Proprio “Colonialismo” è stato il brano che ha concluso il trionfale live set di Bologna Violenta dello scorso mese, all’interno dell’annuale rassegna padovana dello Sherwood Festival: la scelta migliore di una formazione eccezionalmente allargata a tre membri. Al che ci si chiede: come fare perché l’organismo possa risaltare, a tutto tondo, dallo sbozzato blocco originario? Un’idea, forse, ci sarebbe. E sì che costerebbe un sacco, e sì che si aprirebbe tutta un’altra storia, e sì che con la crisi non ci si possono permettere grandi investimenti, e sì che fatto in casa ha tutto un altro sapore… ma cosa succederebbe se Bologna Violenta facesse un ultimo passo in avanti e diventasse un vero e proprio collettivo?

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