Bologna Violenta
Il Nuovissimo Mondo
Penso alle band truzze, quelle di metallo pesante. Ai loro scheletri che brandiscono asce insanguinate, i defunti decomposti impiccati al terzo albero, i morti viventi che schiudono le bare con un occhio penzolante.
Poi ascolto Il Nuovissimo Mondo e capisco che quelle band sono (e vogliono essere) la casa dei fantasmi al luna park, mentre questo disco è la vera morte di tua madre, tuo padre, dei tuoi amici, dei tuoi vicini, opportunamente ricomposta alla bell'e meglio per la registrazione. Sarà stato questo l'intento primigenio di Nicola Manzan (oggi anche nel Teatro degli Orrori), unico componente e artefice del progetto Bologna Violenta?
Riflessione obbligata. Non resta nulla dell’immaginario horror di molte adolescenze più o meno turbate. Ma si impone l’orrore, quello vero, raggelante, che ci circonda ogni santo giorno e che quotidianamente scartiamo, coadiuvati dallo squadrone mass-mediatico, con dribbling eccezionali e finte colpevoli. Questo è un prodotto che della morte fa un uso sfacciatamente reale. La morte è però, a mio modo di vedere, più che quella inerente al microcosmo di un individuo, in primo luogo quella della decenza, largamente intesa quale alto valore dell’intelletto. Non mi spiego in altro modo i terribili mondi che Manzan denuncia, sempre e comunque riconducibili all’ambito dell’osceno (Trapianti Giapponesi), del pornografico (Un Virus Terrificante, Le Regine Delle Riviste Porno), dell’orrore inconcepibile (Chirurgia Sociale, Il Trionfo Della Morte).
Il Nuovissimo Mondo è poi la morte di Manzan stesso, rappresentata già in copertina. Ma crepano con lui tutti quelli che ne condividono lo sdegno. Crepa chi non accetta il paradosso per cui “Il paese dove la pietà supera i limiti della comune immaginazione” non ha pietà alcuna per le sorti sue e del mondo intero. Crepiamo pure noi due, temo. Dammi una speranza!
La speranza, va da sè, resta imbrigliata negli elettroshock somministrati all'ascoltatore con meticolosa noncuranza. Essa muore con lui, se l'elettroencefalogramma permane piatto, vive contro di lui, se sopravvive. In ogni caso, una sanguinosa presa per il culo. Ma il nodo della questione è un altro: il bervismo. E non sto facendo il letterato snob, adoperando termini da accademia della crusca di cui nessuno più si avvale, o parole che ancora non esistono, da avanguardista del vocabolo. Lo lascio fare volentieri a chi se lo può permettere (i pazzi o i geni), e al limite al Manzan. Il bervismo è visione disincantata, “un semplice esperimento sociale, o un nuovo modo di affrontare il mondo che ci circonda” (parole sue), insomma un concetto che non esiste e per questo affascina, materializzandosi nello slogan “Nessuna politica, nessuna religione, bervismo per più”.
Questa è la speranza vera che io colgo in questo lavoro: vedere la morte, avere il voltastomaco per l’acre odore di decomposizione, disgustarsi dinanzi ai media rivoltanti che pasteggiano con lo stupro di una donna intonando messaggi di voto per il fallo. Ma vedere, non turarsi il naso, non tapparsi le orecchie: credo sia la ragione ultima di tale gratuito terrorismo sonico e verbale. Ma che musica contiene questo secondo disco di Bologna Violenta?
Musica? Ventitré brani in venticinque minuti? No, no. Qui siamo di fronte alla perizia di un abile carpentiere. Con gesto automatico le sue mani posizionano il chiodo verticalmente, la punta centrata nel segno del punteruolo. Un attimo per concentrarsi, e giù a martellare finché la capocchia non si livella con il piano del legno. E poi via col successivo. Deliro? Forse, ma fammi spiegare: il chiodo è un messaggio, declamato con la naturalezza di chi la sa lunga, essendovi avvezzo. La tavola di legno è la tua testa, dura e piatta perché così l’ha voluta produrre la fabbrica sociale. Le martellate, beh, quelle sono un parto plurigemellare di assalti grindcore, techno hardcore, cyberpunk, death-metal e chi più ne ha più ne metta. Basta che faccia male. E fa male, soprattutto perché il distillato tossico viene somministrato a piccole, dolorosissime dosi intervallate da sospensioni soavi quanto brevi. Che siano morbidi arpeggi (Il Nuovissimo Mondo), accoglienti arie sintetiche (Trapianti Giapponesi), jingle per poppanti (Danze Cecene), colonne sonore scelte ad hoc (Blue Song, dal film “Milano Trema”) o citazioni classiche (Il Trionfo Della Morte), ogni sospensione non è di per sé rilassante, poiché porta in sé il terrore connesso alla coscienza lucida della propria fine.
Un tessuto sonoro uniformemente articolato. Un processo creativo che si impone sulla logica della macchina, andando ad infrangere il muro metrico del classico campionamento. Le basi elettroniche sono costantemente spezzate, decostruite e (non) riassemblate con una complessità tale da obbligare a pensare ad un montaggio manuale delle battute. Apparecchiatura elettronica al servizio di un gusto quasi math (vederlo suonare dal vivo, fra pause e ritmiche al limite del memorizzabile, è sufficiente per convincersene) che si sposa con gli Slayer o con i Napalm Death. Oppure, per i più nazionalisti, con l’hardcore italiano anni ottanta dei Negazione.
Oh, ma che…? Allora sì, vedi bene che alla fine, in effetti, di musica sto parlando. Perdonami, ma inizialmente proprio non avevo capito la domanda. Pur se inerente al prodotto di un violinista di estrazione classica. Capita, a volte, che la mia testa se ne vada a fare un giro, insegua immagini, concetti o aleatorie chimere pur di non sostenere la realtà che la circonda. Mi capita questo, ad ogni funerale cui presenzio.
“Uomo: Ultimo Atto?”, ti chiederebbe Nicola Manzan per chiudere.
Posto, per inciso, che io e te, dopo la pubblicazione della presente, ci meriteremo l’appellativo di Ultimo Matto e Ultimo Fatto, trovo che la scoperta del Nuovissimo Mondo debba per forza di cose rivelarsi dolorosa e marcia, come questo disco. Manzan, cadavere che ci spia dal pallore di una lapide, è vigile e conscio, e la sua denuncia è profonda, viscerale.
Coscienza o morte.
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