Dillinger Escape Plan
Ire Works
Risoluti ed integerrimi, riecco a voi i detentori del titolo dei pesi massimi categoria grind. I campioni indiscussi del post-core di seconda generazione. Manipolano obici brutal punk con fervida, chirurgica perizia da jazzisti bianchi freschi di conservatorio. Metti stavolta: giunti al terzo album in dieci anni di carriera, capolinea delle loro benemerenze per la Relapse, i Dillinger decidono di passare alla cassa, una buona volta.
Si, ma non nel senso che pensate voi: no, non ce li vedo a dissotterrare intatti panorami melodici dalle macerie dei loro piani quinquennali del disordine, magari per rastrellare un po’ di quella pecunia che è piovuta addosso agli smagati discepoli dell’emo-core (ricodiamoci che i DEP, caso più unico che raro nella storia del rock, hanno rinunciato persino al management, gestiscono tutto per conto loro, dalla bancarella col merchandise al prezzo del biglietto che, privato dei costi aggiuntivi, non grava eccessivamente sulle tasche dei fan), piuttosto, mi pare, si preoccupano di svincolare quello che resta del loro repertorio, fondi di magazzino compresi, dalle pastoie di certe aspettative fondate sulla monolitica organicità dei due capitoli precedenti.
È un po’ come rinunciare ad indossare un abito stravagante, anche se di ottima fattura, per timore che i tuoi amici ti scolpiscano un bassorilievo nel ludibrio a furia di prese per il culo. Complice anche i continui cambi di formazione (recentemente e per motivi del tutto diversi se ne sono andati altri due membri fondatori, il chitarrista Brian Benoit e il batterista Chris Pennie) o forse incoraggiati dalle estemporanee divagazioni in compagnia di Mike Patton ( l’ep Irony is a dead scene) e Brett Gurewitz (Errordel 2004, spartito con l’attuale cantante dei Dillinger, Greg Pulciato), ora questo timore sembra decisamente venuto meno.
Certo i sacrestani dell’integrità stilistica senza se e senza ma grideranno allo scandalo e si stracceranno le vesti (poi vai a casa loro, capovolgi quel crocefisso del Signore che tengono sopra la testata del letto, e scopri che hanno tutti i dischi dei Beatles, quelli di Morrissey e degli Style Council, ciò nondimeno, badate bene signori e non fatevi ingannare, la melodia resta un reato grave!), ma come direbbe Giuda “Per trenta denari non ne vale la pena, piuttosto m’impicco”. Poi se Ire Works rappresenta “il crepuscolo degli dei” o un ”alba di gloria”, questo solo il tempo ce lo potrà dire. La historia me absolverà, come diceva un amico mio. Per ora mi limiterò ai nudi fatti (o quasi).
Fix your faceda fuoco alle polveri del ben noto arsenale: i peana grind disumani, la poliritmia erta ed insistita, le centrifughe ed affilate escursioni del feedback. Buona la prima. Lurch è un noise-core che si enfia a dismisura nel finale, tanto che i DEP azzardano pure qualche staccato ribassato e ripetitivo tipo nu metal (“Vade retro sottana”, come direbbe Homer Simpson), alternandolo ad esiziali break jazzati. Il colpo di scena che ha lasciato i più esterrefatti (per usare un eufemismo) arriva con Black bubblegum, hard soul goliardico e“costruttivista” fra Mike Patton, Michael Jackson e Majakovsky.
Impudente, sicuro, ma paradossalmente intonata con l’umorismo ruvido e un po’ scurrile che filtra da sempre tra le buie feritoie della loro armatura sonica. Id est, a me la gag è piaciuta, poi ognuno è libero di pensarla come gli pare, ci mancherebbe pure altro. Riprendo il filo. Nella parte centrale il gruppo mette a segno una sfilza di fucilate ellettrostatiche, da un minuto e quaranta/due minuti l’una, caricate a pallettoni doppio 0 da caccia grossa: Sick on Sunday (trip-core con flautate inflessioni disco-funk), When acting is a particle (interludio glitch-core con climax ascendente), Nong eye gong (swing-core per machine da guerre), When acting as a wave e 82588 (un tritacarne raga-grind).
Milk lizard riesuma un vecchio amore, lo speed metal (roba da far capottare i Judas Priest dalla sella delle loro Harley Davidson), lo intarsia di miniature chitarristiche jazz e da libero sfogo al pathos di un ritornello power-emo (con Greg Pulciato che imita gl’intramontabili “Oooooh” di Patton e le armonie corali dei Bad Religion). Party smasher sembra un pezzo dei Sonic Youth catapultato su un tappeto di detonazioni antiuomo grind-metal. Dead as history è un puzzle di refusi: preludio ambient, parte centrale rovinosa che sembra un pezzo dei Lost Prophets (a proposito, che fine hanno fatto quegli sfigati?) e outro quasi dream pop.
Quantomeno bizzarro. Horse hunter, invece, è un baccanale alla Dead Kennedys, metalvitaminizzato e suonato su un tempo che raramente rispetta i 4/4. Chiude Mouth of ghost, dream pop su accompagnamento jazz-lounge, con crescendo emo finale che a qualcuno può ricordare i Poison the well o i Deftones di Passenger.
Un disco ghiribizzoso ed eterogeneo, metodico, competente e, nonostante una palese detrazione di coesione, francamente non indegno della bravura dei suoi interpreti.
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