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R Recensione

8/10

The Locust

New Erections

Dopo tanto peregrinare, i Locust hanno scoperto la forma/canzone.

Ve li ricordate questi quattro ragazzi? Li avevamo lasciati nel 2003, vestiti con le rispettive tute verdi (da locusta, ovvio), alle prese con un album assurdo, quale “Plague Soundscapes”: ventitré, deliranti tracce di noise, misto ad hardcore, misto a spruzzate di grindcore, condito con abbondanti dosi di elettronica… il tutto, in appena ventuno minuti. La doppia cassa martellante, la frenesia della chitarra, il basso strisciante che, fra un blastbeat e l’altro, riusciva sempre a tirare fuori quell’accordo impossibile, il sintetizzatore spremuto come un limone, le voci del frontman Justin Pearson e del chitarrista Bobby Bray che, in uno spazio compreso fra una trentina di secondi e tre minuti, riuscivano ad imprimere un ulteriore dinamismo al lavoro complessivo. Bei ricordi, senza dubbio.

Bene. Dimenticate tutto ciò.

Perché l’oblio, la dimenticanza dei lavori passati, è senz’altro questa la chiave per comprendere appieno questo “New Erections”, uscito a marzo del 2007. E’ come se i Locust avessero deciso di fermare il tempo, rivisitare gli esordi, i primi passi all’interno della sfera musicale, il successo ottenuto – meritatamente –nella scena indipendente. E’ come se avessero guardato con sufficienza lo split con le Melt Banana, oltrepassato con indifferenza tutti i loro EP, preso le distanze dalle fatiche (e dalle incomprensioni) incontrate fino a quel momento.

E’ come se poi, con un’aria schifata, fossero ritornati nel presente. Per accorgersi che, durante il loro viaggio, nulla è cambiato nel mondo reale. Ed emerge, quindi, una cattiveria insospettata – ed insospettabile –, battagliera, mai sentita prima: i quattro californiani sembrano avere più cose da dire, con più incisività, più ferocia, meno spirito giullaresco. Il tempo si dilata, a scapito del numero complessivo dei brani: ed è incredibile passare da un “Plague Soundscapes”, infarcito di samples che non vanno oltre i quarantacinque secondi, a “New Erections”, dove le brevi sfuriate sono sostituite da canzoni, nel vero senso della parola.

Canzoni con un filo logico. Canzoni con un tiro di potenza eccezionale, ben superiore a quelle del lavoro precedente. Canzoni che si allungano, si soffermano sui particolari, si contorcono come le appendici presenti nell’artwork. Il risultato è l’album più lungo che i Nostri abbiano mai fatto: sia chiaro, il conteggio è tutt’altro che esorbitante (invece di ventuno minuti, si passa a ventitré), ma la vera notizia è che le canzoni… sono diventate undici. E vale la pena scavare in fondo a quest’opera, per capirla fino in fondo, per apprezzarne il repentino cambiamento, per assimilarla correttamente.

L’apertura è affidata ai tumultuosi controtempi di “AOTKPTA”, una spirale di cybergrind sconnesso che si muove fra spunti rubacchiati agli Agoraphobic Nosebleed – per quanto riguarda i synth elettronici –, un doppio cantato ruvido e graffiante e pesanti influenze dark, cupe ed oppressive, che calano sull’anima del brano come un nuvolone nero. La successiva “We Have Reached An Official Verdict: Nobody Gives A Shit” (la passione per i titoli assurdi non passa mai!) è un frullatore di noise agonizzante, ritmiche balzellanti (in alcuni passaggi sembra un cugino cattivo della “Listen, The Mighty Ear Is Here!” contenuta in “Plague Soundscapes”), grindcore crivellato e passato in centrifuga, punk rock acido e corrosivo, liriche in bilico fra catatonico sarcasmo e critica distruttrice.

Ed ecco arrivare la prima sorpresa del cd: “The Unwilling… Led By The Unqualified… Doing The Unnecessary… For…” è una composizione dinamica e scattante, nonostante i quasi quattro minuti totali di durata. I Locust fanno del loro meglio per rendere lo svolgimento sempre imprevedibile, sconvolgendo le carte in tavola quando tutto sembra già scritto. E così, si passa da un incipit, caratterizzato da mid-tempi progressive e sezioni strumentali hardcore, ad una parte centrale amorfa, fine a sé stessa, scollegata con il resto della traccia, un delirio lirico che emerge, ad intervalli ben ritmati, da un polverone di rumorini sintetico/apocalittici. Arriva “One Manometer Away From Mutually Assured Relocation” e, dopo tanti cambiamenti, si riesce a ritrovare la bussola. La cantilena beffarda di Pearson viene sorretta dall’incredibile lavoro alle pelli di Gabe Serbian che, solo contro tutti, si ritrova a creare ondate di drumming, atti a dissestare con decisione il pezzo.

L’album, pur essendo complesso e stratificato, fila liscio come l’olio, offrendo all’ascoltatore molteplici varietà di listening: è il caso di “Full Frontal Obscurity”, un’odissea elettronica, gonfiata da un vocalism rauco ed esasperato, a sua volta alimentato, in perfetta sintonia, da infiniti – ed imperiosi – stacchi di chitarra. Ma è quando partono le note di “Scavenger, Invader” che si capisce realmente l’enorme potenziale di questa sistematica sperimentazione, da parte delle locuste. Il feedback elettrico che invade periodicamente la canzone, con un fastidio pruriginoso ed insopportabile, è alternato a coretti grandguignoleschi, dall’effetto teatrale e maestoso. E quasi dispiace, passata la momentanea nausea, che il sipario si alzi rapidamente su “Hot Tubs Full Of Brand New Fuel”, composizione di efferata violenza, estremizzata dalle urla del frontman, mai così cattivo e determinato, che prende spunto, a piene mani, dal grindcore più seminale. Salvo poi eclissarsi, per lasciare spazio ad un frusciante sottofondo di loop desolanti. Sulla stessa strada è “God Wants Us All To Work In Factories” (non avete mai avuto così ragione, Locust!), aperta da una rappresaglia sonora (controtempi, screaming, chitarre inferocite), per poi proseguire con una linea “melodica” –si fa per dire – tipicamente e gioiosamente punk.

E, mentre prepari i padiglioni auricolari ad un’ennesima mazzata noise, ecco arrivarti quattro minuti e trentuno (quattro minuti e trentuno!) di eccellente hardcore. “Book Of Bot” è dominata dalla doppia cassa di Serbian, saltuariamente sostituita da un acutissimo, meccanico ronzio, che pervade gli ultimi istanti della traccia, lasciando col fiato sospeso, in liturgica attesa di un’accelerata che non ci sarà. Onde evitare sorprese, ve lo anticipo: impossibile ascoltarla di seguito. E, forse, questa era proprio l’intenzione dei quattro. La conclusione è, previdentemente, strepitosa: prima il noise, volutamente dissonante, attraversato da vene elettroniche, di “Slum Service (Served On The Sky)”, poi il confuso grind di “Tower Of Mammal”, che strizza ancora l’occhio agli Agoraphobic Nosebleed nell’incrocio delle due voci.

Se “Plague Soundscapes” era un album divertente, nonostante tutti gli estremismi, “New Erections” è un vero e proprio pugno nello stomaco. I Locust sono cambiati, e non poco: i Locust si sono incattiviti, e non poco. A qualcuno piacerà, a qualcuno forse no. Certo è che i quattro californiani si dimostrano, una volta di più, prima che provocatori, eccellenti musicisti, preparati e attenti a ciò che producono. Una delle band più importanti del Nuovo Millennio, per molti: per gli altri, c’è sempre una nutrita scena mainstream che, giorno e notte, passa su MTV. Si rivolgano a quella, che i Locust non amano i moralismi…

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