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R Recensione

7/10

Alter Bridge

One Day Remains

Hard rock, breve e strisciante parolina bisillaba, che riporta ad un passato nemmeno troppo remoto, giusto una trentina di anni fa: una chitarra data alle fiamme, un inno americano distorto da sei corde, in una vampata di vergogna e rimorso nazionale, morti misteriose in una villa appartenuta ad un oscuro personaggio, dischi memorabili, dalle copertine memorabili, nati per lasciare indelebilmente il segno nelle generazioni a venire.

Negli ultimi tempi, tuttavia, si sta assistendo ad una massiccia operazione di revival, più o meno nostalgico, più o meno riuscito, dei tempi che furono. Nell’immenso calderone dominato dai vari Wolfmother, Velvet Revolver, Black Stone Cherry e Wolf & Cub, uno spazietto di notevole importanza se lo sono ritagliati anche questi Alter Bridge, un quartetto americano dal nome curioso (si narra che fosse il nome di un ponte, situato nel quartiere di provenienza del chitarrista Mark Tremonti, ritenuto il punto di comunicazione fra la Terra e l’aldilà), che nasce ufficialmente nel 2004 dalla ceneri dei Creed, famoso complesso statunitense noto per le sue dolci composizioni di rock ad alto tasso melodico. O meglio: gli Alter Bridge sono praticamente i Creed con un cantante diverso (Myles Kennedy, proveniente dai Mayfield Four).

Nel 2004 i quattro esordiscono sulle scene con il debutto “One Day Remains”, un’opera a suo modo ambiziosa, ma certamente derivativa, che risente pesantemente delle influenze hard rock settantine e degli strascichi post-grunge, lasciati in eredità da band come Temple Of The Dog e Soundgarden. Tuttavia, il disco è strutturato in modo da risultare non immediato e di easy listening, come si potrebbe pensare ad un primo acchito. Le sfaccettate sfumature cromatiche, dipinte nel meraviglioso artwork – incentrato sulla figura del sopraccitato ponte –, sono un po’ i vari contorni della musica degli Alter Bridge, capace di stratificarsi in più piani, mediante un lavoro combinato da parte di Kennedy (notevole davvero la sua voce, lirica e tonante) e Tremonti (a lui è affidato il compito di impreziosire i lunghi brani con i virtuosismi dettati dalla sua sei corde).

La grande ricchezza di contenuti musicali si percepisce da subito, con il duetto posto in apertura: mentre “Find The Real” è un pezzo dal fortissimo ed energico imprinting metal, la title-track, con il suo feedback d’apertura, altro non è che un veloce, delizioso brano di hard rock, che si snoda attorno ad un ritornello martellante e melodico. I Nostri sono capaci anche di mettere in successione una “Open Your Eyes” (estratta come singolo), spettacolare cliché di armonie à la Aerosmith, con tanto di fenomenale assolo, assieme ad una “Burn It Down”, lunga – e un po’ scontata – ballatona intimistica dalle tinte agrodolci.

L’imprevedibilità, insomma, rimane sempre l’arma migliore degli statunitensi. Nessuna sonorità brilla per innovativa od originalità, ma l’insieme delle stesse risulta certo un po’ spiazzante. E quindi, via libera al crossover violento ed incalzante di “Metalingus”, probabilmente il brano più convincente dell’intera opera, dove una ritmica aggressiva, tipicamente metal si incontra con un cantato graffiante, che sa rendersi urlo e virtuosismo allo stesso tempo. O ancora, al rock vigoroso, percorso da corroboranti venature di blues, della stupenda “Broken Wings”, dettagliato affresco di ciò che possa significare l’r’n’r on the road, aldilà del testo.

Si ha un po’ di flessione qualitativa con il duo “In Loving Memory” – “Down To My Last”, la prima una toccante dedica, anche se troppo melensa, alla madre di Kennedy, il secondo un segmento di hard rock misto a grunge sicuramente trascurabile, dato lo stereotipato risultato finale. Ma la ripresa è assolutamente migliore di ogni più rosea previsione: “Watch Your Words” è una pesantissima scudisciata dai rintocchi claustrofobici e metallici che, nonostante la non indifferente durata complessiva (quasi sei minuti), sa mantenersi agile e vitale, per sorprendere in ogni momento la retroguardia dell’ascoltatore, con i suoi fulminei affondi. Ottima anche la chiusura: prima la semi-ballata circolare, dominata dalla voce tenorile di Kennedy, tanto carezzevole nelle strofe quanto esuberante nel ritornello, di “Shed My Skin”, poi la fosca ed apocalittica “The End Is Here”, malinconica e dolorosa allo stesso tempo. Come il sale che cade copioso su una ferita aperta.

Considerata anche la durata media delle canzoni – intorno ai cinque minuti –, sarebbe quantomeno consigliato dare un ascolto a questo lavoro. Che, è vero, sarà derivativo, ma almeno sa di esserlo. Senza per questo sconfinare nel plagio inascoltabile.

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Voto degli utenti: 6,9/10 in media su 6 voti.
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gi4ndo 8/10
luca.r 3,5/10

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Mboma alle 13:41 del 26 novembre 2007 ha scritto:

meglio sicuramente Kennedy di quel coglionazzo di Scott Stapp

swansong alle 18:08 del 7 febbraio 2008 ha scritto:

Gran bel disco...

se faccio la media fra la prova di Myles Kennedy (da 10) e la proposta musicale (da 7) un bell'8,5 non glielo toglie nessuno...

Kennedy è veramente un cantante straordinario ed il debutto (Fallout) degli ormai scomparsi Mayfield Four è qualcosa di veramente sconvolgente dal punto di vista vocale: come coniugare alla perfezione e senza cadere nel patetico il lirismo e la passionalità di Jeff Buckley con l'irruenza aggressiva del miglior Plant...

andy petretti alle 1:49 del 6 maggio 2009 ha scritto:

Mayfield Four

Citando e apprezzando grandissimamente Swansong per la citazione, Fallout è stato un disco che a confronto questo pare la fotocopia via fax: era più grezzo, più cattivo e più depresso, tutto allo stesso tempo, e le qualità vocali di Kennedy ne risultarono impressionanti: disco dell'anno quando uscì, per quanto mi riguarda, e un pezzo come Don't Walk Away (o 12.31, o anche Forfeit...) avrebbero meritato miglior sorte di un dimenticatoio così profondo... grazie ancora Swan!