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R Recensione

6/10

AutorYno

Flauros: Book Of Angels, Vol. 29

Doppioni degli Zion 80, che a loro volta erano dei doppioni degli Abraxas, che a loro volta erano doppioni dei Rashanim, che a loro volta… Sì, insomma: forse le variazioni al canovaccio di Book Of Angels non sono così radicali e così infinite come il luciferino factotum John Zorn ci ha sempre fatto credere. Forse coscienti della loro non indispensabilità gli AutorYno, power trio francese sotto Tzadik già per i precedenti capitoli “Pastrami Bagel Social Club” (2010) e “Cosmopolitan Traffic” (2013), sono chiamati a fare il loro con precisione e competenza: a Flauros, demone onnisciente a capo di una legione di trentasei spiriti, tocca un canovaccio di klez-rock chitarristico spigoloso, ma tutto sommato classico e mai troppo sbilanciato sul versante hard (per cui almeno il “metal”, il “thrash” e il “dub” paventati dalla presentazione dell’etichetta, quasi ad evocare gli spettri dell’inarrivabile Koby Israelite, sono lontani dal palesarsi).

Tocca dunque accontentarsi di ciò che passa la casa? Sì e no. Se le band di Shanir Ezra Blumenkranz tendono a soffrire di una certa qual pronunciata staticità insita nel loro approccio strumentale, gli AutorYno – da bravi punkheads mai redenti – puntano tutto sul dinamismo e sulla pirotecnia. Stilisticamente, dunque, le differenze specifiche rimangono trascurabili: a segnare un significativo cambio di marcia concorrono piglio ed efficacia realizzativa. In più di un frangente, allora, sembrerà di sentire non Jon Madof o una delle sue innumerevoli reincarnazioni quanto, piuttosto, Trey Spruance (il grugno arricciato di “Qaddisin”, la scheggia zappiana di “Abrimas”): i rivolgimenti di scena sono continui (basti sentire come viene segmentata la head barocca dell’iniziale “Carcas”: un riff portante che si divincola a destra e a manca, chiudendosi melodicamente solo dopo una lunga ascesi) e, anche negli episodi che coinvolgono di meno (la salmodiante “Shahariel” teatralmente gonfiata dal wah wah, l’insistito di basso laswelliano di “Adoyahel” su cui Cyril Grimaud esibisce ogni singolo muscolo), i ragazzi sono bravi a non far calare mai la tensione. Il congedo è affidato a una doppietta di lusso: nella cavalcata di “Achusaton”, David Konopnicki rispolvera il Ribot dell’Electric Masada (ma anche quello dei Ceramic Dog, perché no?), inframmezzandolo con stacchi in levare e saturazioni post metal, mentre “Kaniel” è l’interpretazione crepuscolare di una composizione delicatissima, concettualmente figlia della vecchia “Kisofim”.

All’oggettiva qualità della resa sonora e dell’impianto complessivo, tuttavia, continua ad affiancarsi la sgradevole sensazione di aver devoluto il proprio tempo all’ascolto di un disco ampiamente prescindibile, che nulla aggiunge all’esperienza di chi ha seguito l’evolversi del canzoniere nel corso di questi ultimi dodici anni. Il voto assegnato è una media tra parametro oggettivo (6.5) e percezione soggettiva (5.5).

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