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R Recensione

5,5/10

Baroness

Purple

La primissima generazione di musicisti e appassionati metal – quella forgiata dallo shock rock, da selezionate esperienze hard’n’heavy, soprattutto dal punk – non seguì, né colse le novità fondamentali introdotte nel genere già a partire dagli anni ’80. È una generalizzazione, come tale criticabile ed opinabile, ma in essa v’è più di un fondo di verità. Chi amava e coltivava il bel canto non era intenzionato a sviluppare tecniche vocali differenti, più aggressive. Chi si cullava nelle melodie epiche, fiere ed invincibili della NWOBHM e dell’heavy power teutonico pensava di poter fare a meno delle velocità supersoniche del thrash, dell’annichilimento grind, della malsana sporcizia death – per non citare gli sviluppi ulteriori, successivi. Agli squatters innamorati dei chiodi e della birra non interessava, né poteva interessare la profonda metafisica del tech. Impegnati a controbattere, colpo su colpo, all’incessante lavorio sui fianchi condotto da glam e grunge – una lotta impari, destinata a concludersi con una sonora debacle –, i vecchi draghi non si accorgevano di avere il “nemico” in casa: un nemico giovane, coraggioso, ugualmente rispettoso e spietato. Un’estetica tramontava. Si era conclusa l’epoca del louder & faster than ever: subentrava la corsa all’introspezione, al dettaglio, all’immane complessità tecnica e concettuale. L’universo scanzonato ed archetipico del metal diveniva un labirinto imperscrutabile ed impenetrabile di segni, simboli, allegorie, rimandi. Per decenni, sino ad epoche recentissime, “metal” è stato questo: tutto e niente. Crossover sempre più arditi, formazioni sempre più allargate, la spasmodica ricerca della novità nell’estremizzazione (più pesante: più dissonante; più contrastato; più, più, più), ibridi talmente compositi da non potersi nemmeno definire.

Poi, la saturazione. L’esaurimento di prospettiva. Il disseccamento del processo creativo e di quanto comporta. Quando si accenna ai corsi e ricorsi della storia si intende precisamente l’effetto rimbalzo: la ruota, lungi dal fermarsi, ha riassestato il proprio asse e si è riavviata in senso contrario. Oggi è minoranza, finanche malvista, chi aggiunge: bisogna togliere, depurare, semplificare. Non è l’eccesso di materia, ma la sensazione della sua presenza a fare e costruire il nuovissimo metal – non è affatto un caso, noterete, che i giovanissimi virgulti cresciuti coi classici godano, in questa contingenza, di grande rispetto e considerazione, sebbene la loro proposta sia raramente qualcosa di meglio dalla calligrafia. I Baroness sono stati tra i primi, ancor prima dei padri putativi Mastodon, a cogliere le sparse tracce di insoddisfazione, facendole fruttare a loro vantaggio: non che ci volesse molto a risollevare le quote del modesto sludge teatrale all’acqua di rose di “Red Album” (2007) e “Blue Record” (2009), ma il doppio “Yellow And Green” (2012), oltre alla bellezza oggettiva di certune armonie, aveva il grande merito di suonare e posizionarsi in ambito metal senza doverlo esplicitare – in altre parole, scaricando lateralmente ed internamente la tensione, per estroiettare forme e contenuti radicalmente differenti. Poteva sembrare ruffiano, per le sue concessioni melodiche. Pasticciato, per la sua spinta eterogeneità. Irriverente, all’interno del discorso artistico del quartetto di Savannah, Georgia. Catalizzò, invece, grande consenso, e critico e di pubblico.

Da qui si volta pagina e si comincia a scrivere una vera e propria autofiction. Colpa anche di quel dannato incidente in bus dell’agosto 2012 (un brivido, a ricordare Cliff Burton…), che ha rischiato di paralizzare per sempre le attività della band, di rovinare permanentemente la vita e la carriera dei suoi componenti. Considerata la brutta avventura e la successiva defezione (per paura? trauma?) del batterista Allen Blickle e del bassista Matt Maggioni, “Purple” è un regalo del destino o, se volete, della caparbietà del factotum John Baizley (come sempre voce, chitarra ritmica e abilissima mano della splendida cover). Oltreoceano si sono già sprecate le lodi e le votazioni entusiastiche, al limite dell’isteria (hipsteria?). Per chi, invece, conosce bene il cursus honorum del gruppo, permettendosi magari di tessere gli elogi di “Yellow And Green”, il quarto full length degli americani suonerà esattamente per quello che è: una versione ancora più accessibile e diretta del suo predecessore con, al proprio arco, la sfrondatura pressoché completa di tutte quelle sovrastrutture che ne avevano arricchito la narrazione. Iniziamo. Di metal, o dei detriti che ne rimangono, c’è un’eco nel riff portante dell’iniziale “Morningstar”: una frase melodica a singhiozzo stereotipica di tanto post-core sopra la quale, mancassero la produzione vintage ed un elaborato ritornello quasi southern, non occorrerebbe proferire verbo. “Kerosene” – quasi dieci anni dopo la “Capillarian Crest” contenuta in “Blood Mountain” dei Mastodon – ne riprende i fraseggi acidi, rivestendoli però di sartoria hard glam. Il magniloquente arrangiamento AOR di “Shock Me” respira grazie alle fughe strumentali delle chitarre, il cui ampio spettro sonoro riempie interamente la breve “Fugue” (americana elettrica un po’ prevedibile, ma ci si accontenta): non va certo altrettanto bene a “Try To Disappear” (la sensazione è quella di avere di fronte dei giovani Boston pieni di tatuaggi) né alla svenevolissima ballata conclusiva, “If I Have To Wake Up (Would You Stop The Rain)”, cui non giovano degli overdub che fanno rimpiangere i peggiori giri in minore dell’hard rock ottantiano.

Lo si ascolta e riascolta, “Purple”, finché il buon senso consiglia di interrompere l’esplorazione: se “Yellow And Green” rivelava progressivamente nuovi dettagli, qui – ad essere costante – è il depauperamento, la spoliazione. Lo si ascolta e riascolta, “Purple”, disco colmo di quella piacevolezza che attira, ma non si fissa: quella del post-grunge di “Desperation Burns”, della possente epica romantica di “Chlorine & Wine” (tra prog, hard rock d’antan, alt rock tangente power) e delle sfumature stradaiole di “The Iron Bell”. Lo si ascolta e riascolta e, infine, lo si dimentica. È tutto troppo semplice e frivolo, qui dentro, per farsi davvero apprezzare.

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