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R Recensione

7/10

Baroness

Yellow And Green

La decomposizione del proprio ego ha la misura di un epico quadretto bucolico ed il suono di un minaccioso ronzare di mosche. “Twinkler” (siamo nella parte gialla, quella che scopriremo peraltro essere la meno bella) scoperchia, da sola, metà delle intenzioni dei “nuovi” Baroness. E lo fa procedendo, come in un film di Sam Raimi – un altro la cui poetica gira da sempre, volente o nolente, attorno ai ditteri… –, per contrasto: diretto, evidentissimo, parossistico. La chitarra acustica disegna incastri di arpeggi su posizioni standard, micro cascate di accordi tradizionali raccolte nel palmo di una tastiera non invasiva, modulata alla stessa frequenza dell’ossessivo battere d’ali di centinaia di insetti. Il brusio diviene più forte, interviene sulle trame vocali e si sovrappone al rumore di spie accese. Come a voler dire: natura e cultura, agenti formanti inscindibilmente legati fra loro. Agenti formanti, proprio. Impossibile dimenticare il proprio luogo, le proprie radici. I “nuovi” Baroness sono “nuovi” anche nel rimarcare, in questa accezione, la loro spiccata americanità. E “If I Forget Thee, Lowcountry” (siamo passati, ora, in coda al settore verde) seppellisce le memorie strazianti di un cuore migrante sotto strati di riverbero e slide indolente, in un unico giro che ha la pura estasi melodica dello shoegaze ed il senso della ripetizione ad libitum del drone (decisiva la scelta di accostare due minori per lasciare l’impressione di una narrazione perpetuamente in sospeso…). Potrebbe durare per sempre, essere uguale a sé stesso e, ogni volta, dire qualcosa di nuovo.

Insufflare creatività nella calligrafia, oggi? Possibile. Sorprendente, sicuro, se a farlo sono alcune tra le voci secondarie dello sludge a stelle e strisce del Nuovo Millennio, onesti epigoni spontaneamente sorti sulla scia del successo mediatico e critico dei colleghi di Atlanta Mastodon. “Nuovi” Baroness, allora, perché onestamente dei vecchi musicisti, quelli del “Red Album” e del “Blue Record”, con tanta grinta e nessuna personalità, con gli ululati post-core e le chitarre southern, non rimane nulla. “Yellow And Green”, primo doppio del quartetto di Savannah, Georgia, inscena (finalmente!) quella tanto agognata, sofferta, complessa metamorfosi, da stereotipo inferiore del redneck tipo a nuova, moderna figura di alfiere, pioniere e propagatore di un metal così intelligente da non suonare più, di fatto, metal, nemmeno nel solipsismo personale o nella dimensione del riff fisico. Problematica e già ampiamente discussa, altrove, la radicale trasformazione (già accennata, nel maggiore irraggiarsi della sfera di influenze e zone di contatto, nel modesto predecessore) mostra al mondo un gruppo capace di osare e superare, prima di tutto, i propri limiti mentali e intellettuali: non al pieno della portata, quello ancora no, ma i risultati sono già incoraggianti, e molto.

Riponendo le sinestesie dove devono stare, nel doppiofondo di un cassetto, si approccia per primo il lato giallo. Le nuove canzoni, lo si coglie subito, sono svuotate di ogni gravezza metallica, e rimodellate secondo un gusto di maggiore fruibilità ed uno schieramento elaborato, ma non contorto. Mai come ora, il cosiddetto “secondo passaggio” è essenziale per assorbire molti dettagli sacrificati al senso generale della prima volta. La melodia a rapida, ahi troppo rapida presa di “Take My Bones Away” soffoca, inizialmente, la plasticità di due chitarre in fantasiosa sovrapposizione armonica, diluite in delays space, assoli hammettiani e rocciosi attracchi post-grunge. “Tell me now, who’s in charge here”, canta John Baizley nell’attacco di “Back Where I Belong”, ballata roots per animi sublimi e solitari abilmente gonfiata dall’Hammond, frazionata da acuminate scansioni terzinate in lieve dissonanza e ripresa da un fantastico controcanto acustico, prima che l’opacità dei drone conclusivi facciamo piombare il brano in un limbo temporale rilevabile, da una parte, dalla magniloquenza della cavalcata western di “Sea Lungs”, e dall’altra dalla semplicità mirabile della melodia di “March To The Sea”, che esplode in mille luccicanti fraseggi su pentatonica. Verrebbe da dire, insomma, che ad essere sul tetto del mondo sono proprio loro, se non fosse che qualche incrocio azzardato di troppo, qualche imbastardimento di ripiego fanno storcere il naso: il brutto passo cafone del glam steroidizzato di “Cocainium”, il gioco dei controtempi sulla cassa perfettamente dritta di “Little Things”, i (troppo facili?) toni esistenzialisti di “Eula”.

Per capire, in realtà, quanto i Baroness abbiano scommesso su soluzioni il meno possibile banalizzanti, è sufficiente ascoltare l’infinito ventaglio di soluzioni proposte nel disco verde, sommariamente già etichettato come anima psych-prog del doppio e, in realtà, decisamente meno omogenea e prevedibile. La batteria bombastica di “Green Theme”, in apertura, scatena una fastosa parata hard rock ricolmata di melanconica musicalità power pop e lontano riverbero di disturbo sullo sfondo. Intricatissimo diviene, ad un certo punto, seguire contemporaneamente l’intera alternanza e giustapposizione di temi, specialmente quando il quartetto sottolinea la capacità autografa di ricreare bellissimi squarci paesaggistici tramite dimensione acustica. Gli arpeggi stoppati di “Stretchmarker” raccontano di una sensibilità strumentale à la Fahey, americana sintetizzata al meglio anche nell’uptempo blues, sghembo e sintetico, di “Mtns. (The Crown & Anchor)” ed in un’altra ballata settantiana, “Foolsong”. Il post-core è davvero un ricordo fumoso ed indistinto, un fantasma che riappare – quasi per caso! – negli ultimi, schiumanti passaggi di “Board Up The House”, tesa verso una potabile deriva stroboscopica ingentilita da granitico zucchero weezeriano e bassi giganteschi, e di cui, francamente, non si sente affatto la mancanza: non, almeno, di fronte alle ritmiche gommose con accecanti aperture Interpol di “Psalms Alive” (vera sorpresa dell’intero doppio), o alla polvere stonata di “Collapse”, frastagliata da rumori ambientali.

Il bello dei “nuovi” Baroness è, forse, anche questo: ascoltare capitolo per capitolo con viva e rinnovata curiosità, senza sapere bene dove porterà lo step successivo. Un genuino disorientamento che, se per alcuni sarà testimone di un decadimento mentale e qualitativo senza freni, per noi è il simbolo di quella decomposizione di cui in avvio: il salutare decesso dell’ordinarietà verso nuovi orizzonti, nuovi traguardi.

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luca.r 7/10

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