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R Recensione

6,5/10

Crippled Black Phoenix

Bronze

In the beginning there was darkness, and the darkness was without form, and void

L’epica decadente del fallimento e la durezza della quotidianità. Gli immensi luoghi della mente e gli angusti spazi del mondo fisico. Trovatori, cavalieri, puttane e rockstar. Lo slancio e la rissa. Fisica e metafisica. Le due dimensioni dei Crippled Black Phoenix, canali paralleli fra loro incomunicabili, hanno imprevedibilmente deviato dalla rotta prestabilita subito dopo la pubblicazione del mediocre “White Light Generator” (2014), non a caso il punto di rottura (di degenerazione?) più manifesto con la primigenia ragione d’essere dell’ottetto inglese. Mille nebbiose brughiere hanno visto scendere in campo il fumantino fondatore Justin Greaves contro il chitarrista Karl Demata. Roboanti i toni, meschino il merito: Demata si è appropriato indebitamente del monicker, no!, era un tentativo di strapparlo all’egocentrico satrapo delle pelli per redistribuirlo equamente ad ogni membro e garantire guadagni uguali per tutti, macché guadagni!, nei Crippled Black Phoenix ci si perde solamente, si va avanti per passione, e lo dici a me!, che ho prestato un sacco di soldi ad un membro X che non solo non si è curato di restituirmeli, ma ha continuato a trattarmi dall’alto in basso, ma chi ti credi di essere?, e tu?, sei solo un megalomane che da dieci anni a questa parte rovesci la lineup da cima a fondo perché dopo un po’ i musicisti che suonano con te non ti sopportano più, me compreso. Risultato della furibonda, deprimente querelle: fuori Demata e il bassista Christian Heilmann (le allora new entries di spicco di “I, Vigilante”), dentro Jonas Stålhammar e Tom Greenway, una fulminea pausa di riflessione buona per scrivere e registrare un disco nuovo di zecca in appena due mesi.

Per davvero, allora, lupus pilum mutat, non mentem: anche se “Bronze”, in copertina, ha il muso ringhiante di un orso, cesellato finemente in un blocco dorato che, pur stagliandosi imperioso su uno sfondo limaccioso, è a sua volta sul punto di sgretolarsi. Tutto denuncia la fragilità e la transitorietà di una condizione che ha perso ogni connotato mitico, per farsi disfacimento minaccioso, incombente. L’iniziale addensarsi dei nuvoloni (i synth floydiani di “Dead Imperial Bastard”) è l’avvertimento: il riff in 10/4 di “Deviant Burials”, terremotante biglietto da visita di Stålhammar (come dei Soundgarden versione doom: eccellente), l’abbattersi precipuo del tuono, il precipitare improvviso della tensione. A nulla vale l’aprirsi di subitanei squarci luminosi, di immalinconite chitarre gilmouriane e pianoforti arrochiti: l’oscurità non si dirada ma, anzi, si allunga in nuove forme, nel magistrale continuum hard-dark wave di “No Fun”, in cui i vocalismi dell’onesto Daniel Änghede sembrano sovrapporsi magicamente alle rapsodie grunge del rimpianto Joe Volk. Lo scuro diviene più scuro, il nero si tinge di nero (ad accompagnare l’incalzante andante di “Denisovans” si sente addirittura una doppia cassa) e, nonostante qualche frangente di estatica decompressione (“Rotten Memories” è al livello delle migliori endtime ballads del passato), i tamburi di guerra continuano a rullare con fragore, dando la spinta a kolo sanguinari (“Champions Of Disturbance Pt. 1”) e a cavalcate elettriche di memorabile intensità (“Champions Of Disturbance Pt. 2” esplicita tutta l’heavyness che una “Rise Up And Fight” aveva, a suo modo, camuffato).

La prima mezz’ora di “Bronze”, insomma, oltre a presentarci una formazione eccezionalmente in palla – capace di sfruttare a proprio vantaggio l’energia negativa sprigionata dalle estenuanti lotte intestine – giustifica ampiamente l’interesse che il disco pare abbia risvegliato nelle testate metal (la nuova label, d’altro canto, è Season Of Mist, che in catalogo ha gente come Atheist, Esben And The Witch e Saint Vitus). È nella seconda metà – numericamente ancor più corposa della prima – che i Crippled Black Phoenix cercano di ampliare il raggio d’azione del disco, puntando al contempo ad addormentare il ritmo. I risultati sono, questa volta, altalenanti. Le prime consultazioni vedono tirata in ballo, ancora una volta, la galassia AOR, con una cover scolastica di “Turn To Stone” (da “So What”, terzo disco solista del chitarrista degli Eagles Joe Walsh, datato 1974). Il classic rock è un fantasma che aleggia sugli intrecci strumentali nella pedante “Scared And Alone”, dagli evidenti riferimenti autobiografici (voce inespressiva di Belinda Kordić, tromba di Robert Holm). “A Future Shock” cerca di ricreare, senza troppa fortuna, la magia dei peculiarissimi patchwork post rock meets spoken word che avevano impreziosito indimenticabili suite del passato (il riferimento è a “Time Of Ye Life / Born For Nothing / Paranoid Arm If Narcoleptic Empire”, da “Night Raider”, 2009: a parlare è qui il controverso politico gallese Ronald Davies). Flanger e riverberi passatisti turbinano nell’odissea di “Winning A Losing Battle”, che si inabissa in precipizi drone prima di riemergere, sconfitta e tumefatta, in una coda strumentale interpretata da una crepuscolare orchestrina rock. I toni marziali e la sicumera chitarristica di “We Are The Darkeners” farebbero poi pensare ad un inaspettato happy ending, prima che un colpo di scena scompagini le carte in tavola e la band si ritrovi a brancolare in un desolato – e finanche un po’ tamarro, ma non sgradevole – landscape grunge d’altri tempi, fra Temple Of The Dog e Alice In Chains.

Tagliente, oscuro, difficile da maneggiare: è la parziale discontinuità di “Bronze”, l’illusione che tutto possa gradualmente ritornare com’era un tempo, ad attirare maggiormente di quest’ennesima reincarnazione dei Crippled Black Phoenix. L’affezionato tenderà a crederci. Il recensore, lucidamente, molto meno.

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