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6/10

Crystal Fairy

Crystal Fairy

Nel video di “Running Away”, il miglior brano di uno dei suoi dischi solisti più sorprendentemente riusciti (“Corazones”, 2016), Omar Rodríguez-López viene preso a pugni e calci in faccia da persone che non hanno la benché minima voglia di accettare le sue scuse contrite. Fra la torma dei suscettibili – oltre ad un John Frusciante che con Rodríguez-López ha diviso svariati capitoli di vita personale ed artistica nel recente passato – spiccano King Buzzo dei Melvins e Teri Gender Bender de Le Butcherettes: una (apparentemente) qualunque molto più strettamente connessa di quanto si potrebbe immaginare di primo acchito (vedasi questo e questo, ad esempio). Questione di tempo, insomma, prima che questi rapporti reciproci si formalizzassero compiutamente: e il tempo, per questi signori, è una questione di assoluto relativismo. Ecco spiegata, in due parole, la genesi dei Crystal Fairy (la cui formazione è completata da Dale Crover, altro uomo fieramente Melvins). Ora, se una tale sinossi, nei bei tempi andati, avrebbe costituito essa stessa la recensione, oggi, succubi di una bulimia produttiva che rasenta la schizofrenia – ventitré uscite soliste per Rodríguez-López su Ipecac in un solo anno (!), il ritorno degli At The Drive-In con “in•ter a•li•a” e degli Antemasque con “Saddle On The Atom Bomb”, cinque dischi in cinque anni per i Melvins, le sortite personali di Buzzo e Crover –, il workaholism di per sé non significa più granché.

Crystal Fairy”, non sorprendentemente, non è la prova eccezionale che la presentazione di facciata avrebbe dovuto garantire. Il posizionamento strategico dei brani nella tracklist testimonia, eloquentemente, la disomogeneità che pervade l’aspetto compositivo del disco: si parte forte, anzi fortissimo (“Chiseler”), si comincia ad indugiare in costruzioni rock sempre più ampollose e gargantuesche (“Necklace Of Divorce”, “Moth Tongue”) e si chiude alla stessa velocità con la quale si era iniziato, ma con la metà dell’originaria brillantezza (“Vampire X-Mas”). Non c’è clash intergenere, né si avvertono tensioni sinistre nell’amalgama conclusivo: l’incontro delle visioni musicali di ciascun membro è, di fatto, non un crossover vecchio stampo, quanto una giustapposizione di formae mentis non troppo accondiscendenti l’una con l’altra. Per capirci: Buzzo furoreggia in lungo e in largo coi suoi riff inconfondibili (fin troppo), Rodríguez-López arrotonda il suono con un basso mai così chitarristico, Gender Bender si riconferma una splendida interprete e una perfetta frontwoman, ma tutto si esaurisce lì, nei rispettivi ambiti di pertinenza.

Detto questo, scendiamo nel dettaglio. “Chiseler” (interamente cantata da un androgino Rodríguez-López) è l’apertura maiuscola che non ci si aspetta: uno straordinario pezzo indie rock frantumato da un devastante e rumorosissimo rifferama à la Jawbox che, da solo, giustifica l’ascolto del disco. Tuttavia, già con la successiva “Drugs On The Bus” – la cui progressione minimal-sludge è contaminata da velenose stilettate di tastiera – l’effervescenza va svanendo in un vortice di maniera, che si accentua con il ricorso a soluzioni strumentali bombastiche e vagamente, fastidiosamente tamarre (il frusto street rock di “Necklace Of Divorce”, con ambizioni da operetta rock). La difficoltà nello sfuggire alla trappola dello sviluppo convenzionale si palesa ancora, con cadenza regolare, soprattutto nella prima parte (il modesto doom teatralizzato di “Moth Tongue”, i Sabbath latini di “Secret Agent Rat”): solo il blues spastico, sonnacchioso e sconnesso di “Under Trouble” (con Gender Bender che si divora Alison Mosshart a colazione) e le percosse post-core che illividiscono le solite, tentacolari pentatoniche di “Bent Teeth” sembrano preludere ad un nuovo, definitivo shift narrativo. Attesa, purtroppo, mal ripagata: la free form punk, marziale e distonica, di “Posesión” (cover di “Possession” dei Tales Of Terror del s/t omonimo, 1984), l’anonimo midtempo di “Sweet Self” e certe carambole proto-heavy di “Vampire X-Mas” fanno numero e accrescono la volumetria, ma non dicono davvero nulla di nuovo, né di esaltante rispetto a quanto ascoltato fino a quel momento.

Come da prassi, i primi tre brani di “Crystal Fairy” – oltre ad una title track più melvinsiana dei Melvins – erano già circolati in un 7” (“Necklace Of Divorce”, 2016) e in un 10” (“Crystal Fairy”, 2017) in tiratura limitata, entrambi usciti per la fida Amphetamine Reptile. Evidentemente, tuttavia, c’è qualcosa nella pianificazione a monte che non ha funzionato come doveva: anche il tour di promozione del disco, causa i numerosissimi e concomitanti impegni di ciascun membro, è attualmente fermo al palo. Morte in culla o difficoltà transitorie?

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motek 5/10

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