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R Recensione

7/10

Dommengang

No Keys

Bobby Gillespie ha emesso la sua sentenza: il rock’n’roll è morto, lunga vita al rock’n’roll. Viaggiano ancora sulla cresta dell’onda le dichiarazioni rilasciate dal leader dei Primal Scream al magazine Hunk, circa un mese fa: “Most rock music – and you can put us in this – it could have been made ’71, ’72. It hasn’t moved on. It feels like a dead language […] Rock is still a viable language – it’s one that I speak and that our band speaks – but it is 20th-century music. How can it be relevant? It’s irrelevant. I honestly think white music is generally fucking irrelevant. It’s too comfortable. I don’t think it’s interesting. It hasn’t been interesting for a while. Young white working class kids, who want to make their version of grime and drill, won’t be forming fucking rock bands. It just feels old, doesn’t it?”. Ora, soprassedendo sul fatto che il rock venisse fatto morire già dal giorno successivo alla propria nascita, se l’essenza dei concetti espressi può essere condivisibile, l’esposizione rimane quantomeno lacunosa: l’oggettiva irrilevanza contemporanea della white music è dovuta ad un complesso di cause culturali, economiche e mediatiche piuttosto difficile da districare, figuriamoci da liquidare in due battute manichee. A morte le categorie platoniche, quelle sì ormai astoriche! La black contemporanea non è tutta Kendrick Lamar, così come il rock non è rappresentato – se non in minima parte – dai Greta Van Fleet: e di produzioni rock roboanti se ne trovano ancor oggi a bizzeffe, senza consumarsi nella ricerca.

Il piuttosto interessante caso di studio dei losangelini Dommengang è l’esemplificazione del teorema che vuole le risposte ai quesiti chiave in prossimità di chi se li pone. L’inusitato salto dal pur buono “Love Jail” (2018) a “No Keys” rispecchia la lineare evoluzione di chi, dopo aver assorbito la lezione dei grandi classici, volge il loro verbo a proprio favore, muovendosi con originale personalità all’interno degli steccati di genere. Il suono si allunga, si irruvidisce, si deforma: le canzoni, ancora di grande definitezza (la bella “Jerusalem Cricket”, cantata assieme a Camilla Saufley-Mitchell degli Assemble Head In Sunburst Sound, è forse il legame più diretto col capitolo precedente), tendono tuttavia a slabbrarsi, a incurvarsi in anse non previste. La produzione Thrill Jockey fornisce un primo suggerimento orientativo: continuare a ballare il boogie sì, ma solo se nel perenne chiaroscuro di un flusso di coscienza strumentale che rende indistinti i contorni delle composizioni (“Earth Blues” porta incisa a chiare lettere l’influenza dei Pontiak di “Living” ed “Echo Ono”). Ne risulta un lavoro ibrido per cui l’ammirazione, in più di un frangente, è sincera e assoluta. Il felice riff su pentatonica di “Stir The Sea” viene rimpallato da divagazioni acide e da un solismo particolarmente tagliente. “Arcularius – Burke” è un saggio southern di sei minuti e mezzo costruito a mo’ di suite heavydelica e fatto confluire nell’ustoria frase chitarristica conclusiva. L’intontito minimalismo di “Happy Death (Her Blues II)” viene spruzzato di psichedelia pompeiana dalle tastiere di Adam Parks. Ai rumorosi phaser che spirano sul corpo guizzante dell’hard rock à la West Coast di “Sunny Day Flooding”, infine, si affianca l’omaggio californiano di “Kudzu”, gonfiato da una straripante sezione ritmica (in grande evidenza, dietro le pelli, Adam Bulgasem) e decorato da ampi arabeschi chitarristici (Sig Wilson gioca a fare il John Cipollina della situazione).

Rileggete la chiusura della recensione a suo tempo dedicata a “Love Jail” e capirete perché, se per molti “No Keys” potrebbe risultare una sorpresa, per noi è “solo” una conferma, per quanto di inaspettato spessore. Davvero un’ottima prova.

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