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R Recensione

7/10

Hedvig Mollestad Trio

Black Stabat Mater

Uno può anche invocare per anni una vagheggiata “parità fra i sessi” in tutti i campi della società, ma resta il fatto che, nella musica, alcuni strumenti – inutile girarci intorno – sono più polarizzati di altri. Se parliamo di bassiste donna, la lista – da Carol Kaye a Kim Gordon, da Melissa Auf Der Maur a Paz Lenchantin – è corposa e iconica. Il discorso “violoncello” è meglio non affrontarlo nemmeno. Quanto alla chitarra… Per carità, la suonano un po’ tutti, dal metalhead parruccone al punk scatenato, dallo scaricatore di porto al raffinatissimo jazzofilo, ma si fa fatica a richiamare immediatamente alla memoria una chitarrista donna che non sia una songwriter, la componente di qualche trascurabile complesso riot grrl anni ’90 o di squinternate band hair metal del decennio precedente. Se vi ricordate di Kaki King, Shannon Wright o St. Vincent siete già bravi. Lo siete ancora di più se citate Liz Buckingham degli Electric Wizard o Laura Pleasant dei Kylesa. Se tirate fuori dal cilindro Ana Popović o Barbara Lynn meritate un encomio speciale. Per troppi ancora, tuttavia, chitarra al femminile = Orianthi Panagaris, se capite quello che intendo.

Ecco allora arrivare, dalla civilissima Norvegia, un disco capace di rimettere le cose in chiaro. Hedvig Mollestad Thomassen, giovane ed affascinante vichinga di Ålesund, guida già da qualche anno un power trio delle meraviglie che, con “Black Stabat Mater”, arriva alla sua quarta uscita studio (quinta, se si considera la contemporanea release del live albumEvil In Oslo”) in appena un lustro di attività. Se di hard rock, oggi come ieri, se ne scrive e produce fin troppo, quasi tutto didascalico ed ampiamente prescindibile, “Black Stabat Mater” è la panacea perfetta per sanare ogni peccato di superfluità – che sia una caratteristica peculiare dell’aria scandinava? In due parole: in poco più di mezz’ora, Hedvig e compagni rovesciano come un calzino la pentatonica tradizionale, servendosi di linguaggi esplicitamente jazzistici e di armi avant non convenzionali. Dove sta la novità, si chiederanno il lettore scafato e l’appassionato di Rune Grammofon: nella straordinaria coesione e fruibilità del materiale proposto, risponderà il recensore.

È, in fondo, un disco di “genere” – se solo con “genere” si potesse intendere non una categoria platonica, ma un larghissimo diapason cognitivo di sfumature. Se l’abilissima mano di Hedvig viene guidata da un’inventiva fuori dal comune (in “Approaching” vengono presi a sberle quarant’anni di rock, qualsiasi cosa voglia ancora dire questa parola: solipsismo hard’n’heavy, brillanti aperture psichedeliche, scatenati boogie di raccordo, fraseggi fuzz-stoner dalle superiori qualità armoniche), è la sezione ritmica a risaltare con vividezza assoluta. “On Arrival” è l’unico passaggio del disco in cui l’interplay sembra sfrangiarsi e sbandare pericolosamente, sotto i colpi crivellanti del drumkit di Ivar Loe Bjørnstad e i gelidi feedback degli amplificatori – giocoleria rumoristica degna dell’irriverenza iconoclasta di Box e Staer. I malevoli, acidi tritoni chitarristici di “Somebody Else Should Be On That Bus” intervengono a gamba tesa sullo splendido andante di basso di Ellen Brekken, più frippiano del Fripp di “Red”: una fascinazione crimsoniana già esplicitata a tutto tondo negli 11/8 della head di “In The Court Of The Trolls” (…appunto), dove la vicinanza delle digressioni strumentali alle improvvisazioni free jazz genera un ibrido curioso e godibilissimo. Il contrasto con gli archi plumbei e gli arpeggi minimal post rock di “-40” (un episodio di glaciale isolazionismo e di grande atmosfera) non potrebbe essere più accentuato.

Ai ferri corti con l’elettricità delle sei corde? È semplicemente stanchezza da bulimia di ascolti immeritati. Fate girare una volta al giorno “Black Stabat Mater” sul vostro piatto e tornerete presto come nuovi.

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